MediaTwitter Files: la censura social

Twitter Files 4 e 5: Trump bannato senza aver violato regole né istigato

Nei suoi tweet nessuna violazione delle regole né incitamento alla violenza, rivelano i documenti interni. Ma pur di bannarlo, la policy fu cambiata “ad hoc”

Media / Twitter Files: la censura social

L’8 gennaio 2021 Twitter decideva la sospensione permanente dell’account di Donald Trump, il primo capo di Stato ancora in carica ad essere bannato.

Una decisione che, come vedremo, deviava sostanzialmente dalle regole della stessa piattaforma e che infatti non era mai stata assunta, nemmeno nei confronti dei peggiori dittatori – per esempio la Guida Suprema iraniana Alì Khamenei, i cui tweet che evocano la distruzione di Israele sono ancora in bella mostra.

Nel giugno 2018 aveva twittato: “Israele è un cancro maligno nella regione dell’Asia occidentale che deve essere rimosso ed eradicato: è possibile e accadrà”. Twitter non ha cancellato il tweet né bandito l’ayatollah.

La policy di Twitter con i leader

Ma ci sono numerosi altri esempi di tweet di leader mondiali che minacciano o celebrano la violenza, tra cui quelli dei leader di Malesia, Nigeria, Etiopia, e del primo ministro indiano Modi, che aveva minacciato di incarcerare per sette anni i dipendenti di Twitter in India per aver riammesso sulla piattaforma centinaia di account critici nei suoi confronti.

Per anni, Twitter aveva resistito alle richieste sia interne che esterne di bloccare Trump sulla base della sua policy, ribadita nel 2019, nei riguardi dei leader mondiali, secondo cui rimuovere i loro tweet controversi avrebbe nascosto informazioni importanti che le persone dovrebbero invece avere la possibilità di leggere e discutere.

Dal 6 Gennaio però la pressione interna ed esterna per bannare il presidente Trump era cresciuta. Tra gli altri, anche l’ex first lady Michelle Obama ne chiedeva la sospensione.

Abbiamo già visto nei precedenti Twitter Files quali fossero le dinamiche interne alla piattaforma, la cornice ideologica dei suoi vertici e impiegati, e come già durante la campagna per le presidenziali del 2020 lo stesso Trump e molti account conservatori e repubblicani fossero oggetto di censura attraverso diversi strumenti, anche invisibili, sia automatici che manuali, su segnalazione sia dell’FBI che del team Biden.

L’8 gennaio

Il più recente lotto dei Twitter Files contiene le comunicazioni interne, sui canali Slack, nel fatidico giorno del ban di Trump e a riportarle è la giornalista Bari Weiss, transfuga del New York Times, dal quale ha dato le dimissioni nel 2020 citando l’estrema ideologizzazione del quotidiano.

Come i precedenti lotti, nulla di particolarmente sorprendente, ma conferme comunque degne di nota perché basate su documenti ufficiali.

Il dato saliente è che ai vertici della compagnia c’era la piena consapevolezza che Trump non aveva violato le regole di Twitter, che i suoi tweet non erano definibili come incitamento alla violenza, ma ciò nonostante fu presa la decisione di sospenderlo in modo permanente – contraddicendo le policy che la stessa piattaforma si era data.

I tweet di Trump

Ma procediamo con ordine. Quella mattina il presidente Trump pubblica due tweet:

I 75.000.000 di grandi patrioti americani che hanno votato per me, America First e Make America Great Again, avranno una voce gigante per molto tempo nel futuro. Non gli verrà mancato di rispetto né saranno trattati ingiustamente in alcun modo o forma.

A tutti quelli che me lo hanno chiesto, il 20 gennaio non andrò all’inaugurazione.

Il dibattito interno

C’erano voci interne contrarie al blocco di Trump – come quel dipendente che il 7 gennaio osservò “forse perché vengo dalla Cina, ma capisco profondamente come la censura possa distruggere la conversazione pubblica” – ma erano voci nettamente minoritarie, osserva Bari Weiss.

Sui canali Slack, molti dipendenti di Twitter erano sconvolti piuttosto dal fatto che Trump non fosse stato bandito prima. “Dobbiamo fare la cosa giusta e bandire questo account”; è “abbastanza ovvio che cercherà di insinuare l’incitamento senza violare le regole”.

Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio, il Washington Post aveva pubblicato una lettera aperta firmata da oltre 300 dipendenti al ceo Jack Dorsey chiedendo di bannare Trump: “Dobbiamo esaminare la complicità di Twitter in ciò che il presidente eletto Biden ha giustamente definito insurrezione”.

Nessuna violazione, non è incitamento

Ma lo staff di Twitter incaricato di valutare i tweet aveva rapidamente concluso che Trump non aveva violato le regole del social: “Penso che avremmo difficoltà a dire che si tratta di incitamento”. È “abbastanza chiaro” che i “patrioti americani” a cui si sta riferendo sono “quelli che hanno votato per lui e non i terroristi (possiamo chiamarli così, giusto?) di mercoledì”. “Non ci vedo incitamento qui”.

“Anche io non vedo incitamento esplicito o in codice nel tweet di DJT”, scriveva Anika Navaroli, un funzionario Policy di Twitter. “Risponderò nel canale delle elezioni e dirò che il nostro team ha valutato e non ha trovato vios [violazioni, ndr]”. E farà proprio questo qualche istante dopo: “La Sicurezza ha valutato il tweet di DJT di cui sopra e stabilito che non vi è alcuna violazione delle nostre policies in questo momento”.

Successivamente, il team Sicurezza di Twitter decideva che anche il secondo tweet di Trump di quella mattina non avesse violato alcuna regola. La loro valutazione è inequivocabile: “È un chiaro no vio. È solo per dire che non parteciperà all’inaugurazione”.

L’escalation

Eppure, i dirigenti di Twitter hanno alla fine deciso di bannare Trump, anche se membri chiave dello staff avevano concluso che non aveva incitato alla violenza, nemmeno “in codice”.

Meno di 90 minuti dopo, la solita Vijaya Gadde interviene chiedendo se non possa, in effetti, configurarsi un “incitamento cifrato a ulteriore violenza”.

Pochi minuti e i dipendenti del team “Scale” suggeriscono che il tweet di Trump potrebbe aver violato la policy di Twitter sulla celebrazione della violenza, se si interpreta la frase “American Patriots” come un riferimento ai rivoltosi.

Da qui in poi, riporta Bari Weiss, è una escalation. I membri di quel team arrivano a “vederlo come il leader di un gruppo terroristico responsabile di violenze e morti paragonabili al killer di Christchurch o Hitler e su tale base, e sul complesso dei suoi tweet, dovrebbe essere rimosso dalla piattaforma”.

La decisione

Due ore dopo, i dirigenti di Twitter organizzano una riunione con tutto il personale. Jack Dorsey e Vijaya Gadde rispondono alle domande dello staff sul motivo per cui Trump non è stato ancora bandito. Qualcuno si arrabbia. Molti dipendenti, citando “La Banalità del Male”, suggeriscono che “le persone che attuano le nostre politiche sono come i nazisti che eseguono gli ordini”, riferisce Yoel Roth ad un collega.

Dorsey chiede una spiegazione più semplice per motivare la sospensione di Trump. E Roth osserva: “Dio ci aiuti [questo, ndr] mi fa pensare che voglia condividerla pubblicamente”.

Un’ora dopo, Twitter annuncia la sospensione permanente di Trump “a causa del rischio di ulteriore incitamento alla violenza”. Seguono, nei canali Slack, manifestazioni di entusiasmo e congratulazioni reciproche.

Twitter spiega che la sua decisione si basa “in particolare su come [i tweet di Trump, ndr] vengono accolti e interpretati“. Ma nel 2019, spiegando la sua policy, aveva affermato di “non tentare di determinare tutte le potenziali interpretazioni del contenuto o del suo intento”.

Punto di rottura

Dal giorno successivo, i dipendenti cominciano ad esprimere la volontà di affrontare la “disinformazione” sul Covid il prima possibile: “Sono entusiasta di vedere che gestiamo più categorie di disinformazione. Per molto tempo, la posizione di Twitter è stata che non siamo l’arbitro della verità, l’ho rispettata ma non mi ha mai appassionato”.

Parag Agrawal, che in seguito sarebbe succeduto a Dorsey come ceo, scrive al capo della sicurezza Mudge Zatko: “Penso che alcuni di noi dovrebbero fare un brainstorming sugli effetti a catena” del bando di Trump. “La moderazione centralizzata dei contenuti a mio avviso ha raggiunto un punto di rottura ora”.

Il 7 gennaio

Il 7 gennaio, come emerge dal quarto lotto dei Twitter Files riportati sabato sera da Michael Shellenberger, i vertici di Twitter sono impegnati a costruire il caso a favore di un bando permanente di Donald Trump.

Non essendo fino ad allora previsto dalle regole della piattaforma, sostengono un cambio di policy “one-off”, “una tantum” per Trump, distinto dagli altri leader politici, senza minimamente preoccuparsi delle implicazioni di tale bando permanente sul free speech e la democrazia.

Deviazione dalle policies

Dai messaggi tra Roth e i suoi colleghi del 7 gennaio si comprende come da mesi stessero pressando Dorsey per introdurre maggiori restrizioni durante le elezioni.

In una email ai dipendenti Dorsey spiega che Twitter deve rimanere coerente con sue policies, incluso il diritto degli utenti ad essere riammessi dopo una sospensione temporanea, ma poi Roth annuncia un nuovo approccio per cui dopo cinque violazioni la sospensione diventa permanente.

I dipendenti riconoscono la differenza tra la loro policy e i Termini di servizio (TOS) di Twitter, ma si impegnano anche in complesse interpretazioni dei contenuti per eliminare i tweet scomodi, come rivela una serie di scambi sull’hashtag #stopthesteal.

Roth invia immediatamente un messaggio diretto ad un collega per chiedergli di aggiungere “stopthesteal” ad una blacklist di termini da deamplificare e di deamplificare anche gli account con “stopthesteal” nel nome o profilo.

E cosa succede se a un utente non piace Trump ma si oppone alla censura di Twitter? Il tweet viene comunque cancellato. Ma poiché l’intenzione non è quella di negare il risultato elettorale, l’utente non viene sospeso.

Decisione “una tantum” per Trump

Il momento chiave è quando, nella serata del 7 gennaio, ad un dirigente che chiedeva se Twitter stesse abbandonando la policy dell’interesse pubblico – l’eccezione per i tweet di funzionari eletti, anche se violano le regole, in quanto contribuiscono “alla comprensione o alla discussione di una questione di interesse pubblico” – Yoel Roth risponde così: “In questo caso specifico, stiamo cambiando il nostro approccio all’interesse pubblico per il suo account”.

Ancora Roth, in un’altra conversazione, suggerisce come Twitter potrebbe giustificare la deviazione dalla sua policy: “Le policies sono una parte del sistema di funzionamento di Twitter… ci siamo imbattuti in un mondo che cambia più velocemente di quanto siamo stati in grado di adattare il prodotto o le policies“.

Inascoltata la preoccupazione di un membro junior dello staff: “Questa potrebbe essere un’opinione impopolare, ma decisioni ad hoc, una tantum come questa, che non sembrano radicate nella policy sono a mio avviso un terreno scivoloso… Questa ora sembra essere una decisione di un ceo di una piattaforma online con una presenza globale che può controllare il discorso pubblico per il mondo intero”.

Il che sembra confermare “l’idea (teoria del complotto?) che tutti… i magnati di Internet… se ne stanno seduti come re a decidere casualmente ciò che le persone possono e non possono vedere”.

Quel giovane membro dello staff ci aveva visto giusto: pur di eliminare Trump dalla piattaforma, i vertici di Twitter hanno piegato le loro stesse regole a piacimento, applicandole o ignorandole a seconda della convenienza del momento.

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