Libri in Libertà

I perdenti (e i vincenti) della globalizzazione

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La globalizzazione e i lavori manifatturieri persi. Qual è il bilancio? Per gentile concessione dell’autore, un estratto da “La verità, vi prego, sul neoliberismo”, libro di Alberto Mingardi, uscito da poco per Marsilio. Per una settimana, tutte le sere, sul nostro sito troverete un teaser, una piccolo boccone del libro appena uscito. Ecco la seconda puntata.

Due economisti americani, Gary Hufbauer e Lucy Lu, nell’ambito di un articolato lavoro sui guadagni prodotti dalla globalizzazione per la popolazione statunitense nel suo complesso, non evitano la complessa questione dell’effetto di alcuni scambi su alcune tipologie di lavoro. Dopo la campagna elettorale di Donald Trump e l’attenzione sempre più pronunciata per i «perdenti della globalizzazione», l’attenzione si è concentrata inevitabilmente sui lavori manifatturieri. In particolare i due studiosi stimano che «nel periodo 2001-2016 circa 5 milioni di posti di lavoro – grosso modo 312.500 posti di lavoro americani all’anno – sono stati colpiti dall’aumento di manufatti importati. Nel medesimo periodo, l’aumento delle importazioni di manufatti ha garantito circa 2,5 milioni di posti di lavoro, pari a una media di 156.250 all’anno». Sicuramente, per le persone direttamente coinvolte, la perdita del posto di lavoro è una tragedia. Ciò è tanto più vero se si accompagna all’impressione che sia proprio tutto un mestiere, che sia proprio la professione che si era stati abituati a svolgere, a essere “migrata” altrove. Sarebbe però ridicolo pensare che la concorrenza internazionale sia l’unica ragione per la quale si può perdere il lavoro.

Per mettere le cose in prospettiva, è opportuno considerare che solo fra gennaio e luglio 2017, in un periodo di crescita, «l’occupazione [negli Stati Uniti] è aumentata in media di 184.000 unità al mese». Questo serva soltanto per dare un’idea della velocità di crociera dell’economia americana, durante la fase migliore del ciclo economico. Ovviamente nessuna persona sana di mente sosterrebbe che esista alcunché di automatico nei processi per i quali le persone che hanno perso un lavoro ne trovano un altro.

Certi processi somigliano all’estrazione di un dente cariato senza anestesia: per male che possa fare, non è detto che sia meglio tenersi il dente. Nei diversi contesti, conta sicuramente il fatto che un’economia stia crescendo oppure no. Pesano anche le decisioni dei diversi governi. In alcuni paesi si è scelto di puntare sul “capitale umano”, cioè di trasmettere nuove conoscenze a chi perde il lavoro, e magari di certificare meglio le competenze che ha appreso sul posto di lavoro, spesso più importanti di fatti formali come il titolo di studio o i corsi ai quali si è partecipato. Altri, invece, hanno cercato di tamponare i problemi legati alla presenza di più agguerriti concorrenti internazionali, tenendo in vita aziende che, se non fosse per un esplicito intervento del governo, sarebbero fallite da tempo.

Ma nel tentativo di evitarli, questi problemi, si rischia di crearne di più grossi.

Alberto Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo (Marsilio 2019)

(2.segue)

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