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Il vero modello è quello della Corea del Sud

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Per coloro che parlano a sproposito di modello italiano consiglio di consultare il grafico che illustra la traiettoria dei contagi in Italia (60mila) e in Corea del Sud (9mila) da cui si evidenzia un divario enorme di efficienza nel controllo e nella mitigazione del virus. Le due curve in comparazione ci segnalano un incremento esponenziale dei contagi in Italia e una capacità di domare l’incendio epidemico da parte di Seul. La Corea del Sud, con il combinato disposto dei tamponi a tappeto e della tecnologia digitale, ha circoscritto il fenomeno virale e spezzato la catena del contagio. I coreani hanno eseguito 340 mila test e attraverso l’uso pervasivo della tecnologia hanno mappato i pazienti positivi, percorrendone a ritroso gli spostamenti per incamerare informazioni da riutilizzare in funzione profilattica con la perimetrazione delle aree con cui sono venuti a contatto. Una App informa i cittadini delle zone a rischio che sono suddivise per tasso di pericolosità al contagio.

La strategia coreana è coadiuvata dalla sinergia fra più dispositivi, le carte di credito, i Gps dei cellulari e le telecamere a circuito chiuso, che si sta rivelando efficace come documentato dalla flessione della curva epidemica. In Italia il diritto non autorizza l’intromissione invasiva della tecnologia nella vita privata, ma tale ottuso veto nella eccezionalità del momento sta agevolando l’intromissione del morbo non solo nella vita privata ma in quella collettiva. Se rinunciassimo alla privacy provvisoriamente e limitatamente, per il tempo necessario a contenere la propagazione del Covid-19, è probabile che riconquisteremmo con anticipo il pieno esercizio della libertà di movimento.

Dunque, il modello è la Corea del Sud e le autorità mediche sono propense ad incoraggiarne l’emulazione, soprattutto nei territori del sud non ancora investiti dalla furia epidemica, per individuare precocemente i positivi su cui applicare i protocolli conseguenti e tracciarne i contatti. L’imprudenza e la superficialità, con cui il governo italiano ha gestito l’emergenza, hanno provocato un effetto claustrofobico, siamo stati costretti a sigillarci dentro casa come rimedio alla sottovalutazione e alle omissioni che si sono succedute per un mese dalla decretazione dello stato di emergenza.

Il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri deliberava lo stato di emergenza causato dal Covid-19 in conseguenza della dichiarazione di pericolo sanitario internazionale per la salute pubblica decretato dall’Oms, ma dall’ordinanza del governo è scaturito un inconcepibile e contraddittorio ridimensionamento delle potenzialità diffusive dell’agente patogeno. Tant’è che fino al 21 febbraio chi evidenziava la cogenza di misure precauzionali, perché temeva la nocività letale del virus, veniva zittito come profeta di inutile allarmismo. Così Zingaretti sfidava lo stato di emergenza sorseggiando aperitivi a Milano e i governatori delle regioni del nord, che invocavano provvedimenti restrittivi, si procuravano immeritate contestazioni e accuse di razzismo.

Dal 31 gennaio ai decreti a tappe di marzo il governo si è contraddistinto per l’inerzia, non ha provveduto a rendere disponibili in quantità sufficiente i DPI per gli operatori sanitari e le forze dell’ordine, così come ha trascurato di potenziare la terapia intensiva delle strutture ospedaliere. Quando la drammaticità del fenomeno ha esposto al collasso il sistema sanitario, nonostante l’encomiabile ed eroico servizio dei medici, infermieri e volontari, il governo è andato in confusione ed ha inanellato una serie di provvedimenti rabberciati tentando con la toppa dei decreti di coprire la voragine che aveva scavato con le sue stesse mani.

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