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Sugli Stati generali di Conte soffia vento di patrimoniale

Roberto Gualtieri l’ha giurato davanti a Goldman Sachs: “Non prevediamo una specifica tassa sulla ricchezza”. Ma gli indizi lasciano pensare che sia proprio alla patrimoniale che prima o poi s’andrà a parare. E il sospetto è che gli Stati generali di Giuseppe Conte servano a preparare il terreno per le fregature venture. Che sono targate Europa, ma sulle quali comparirà l’imprimatur di parti sociali e associazioni di categoria, se renderle corree del disastro è lo scopo per cui Giuseppi l’ha invitate a Villa Pamphilij.

Occhio alle parole dello stesso Gualtieri e all’eco che gli ha fatto ieri, al convegno nella Capitale, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Qui il titolare del Mef: “Stiamo lavorando sulla riforma del sistema fiscale […] per […] ridurre il peso fiscale su lavoratori e imprese, continuare nel contrasto dell’evasione, che in Italia è di 120 miliardi di euro”. Qui Visco: “Ciò che più differenzia la nostra dalle altre economie avanzate è l’incidenza dell’illegalità e dell’evasione fiscale, che si traduce in una pressione fiscale troppo elevata”. Serve “un profondo ripensamento della struttura della tassazione, che tenga conto del rinnovamento del sistema di protezione sociale, deve porsi l’obiettivo di ricomporre il carico fiscale a beneficio dei fattori produttivi”. Per carità: chi non vorrebbe ridurre le tasse su chi lavora e chi produce? Dietro tale concordia su un tema all’apparenza condivisibile, tuttavia, aleggia uno spettro inquietante: la patrimoniale, appunto.

Cominciamo con il ricordare che la sbandierata lotta all’evasione, finora, non ha portato i frutti sperati dai governi che l’hanno brandita come virtuale copertura per le loro promesse elettorali. Ormai non si contano più i premier e i ministri che evocano i famigerati 120 miliardi l’anno di nero. Al contrario, c’è una fonte di introiti pronta, indifesa e subito aggredibile: i risparmi degli italiani. Secondo gli ultimi dati Abi, la liquidità sui conti correnti supera i 1.600 miliardi di euro. Ci vuole molta fiducia nella buonafede dei giallorossi, per credere che non stiano accarezzando l’ipotesi di finanziare con un prelievo forzoso quella riforma del carico fiscale che, al momento, è l’unica proposta concreta uscita dalla giornata inaugurale della Leopolda di Giuseppi.

Ma c’è un secondo motivo di apprensione, se volete persino più realistico del primo. Non ci dimentichiamo, infatti, che tutta la sceneggiata messa in piedi dal nostro Churchill – oltre che a garantirsi una passerella e imbrigliare i malpancisti del Pd – serve a elaborare quel piano di riforme cui sarebbe vincolata l’erogazione delle (miserrime) rate del Recovery fund europeo. E Bruxelles ci chiederà di modellarle sulla base delle raccomandazioni contenute nella sua letterina all’Italia.

Ora, quella del 2020, oltre a tante parole di comprensione per i guai patiti a causa della pandemia, oltre alla metà digeribile di provvedimenti che Conte s’è affrettato a venderci (digitalizzazione, ambiente, infrastrutture), contiene un esplicito richiamo alle raccomandazioni del luglio 2019. “Restano pertinenti”, recita testualmente il documento. E cosa prescrive la lettera dell’anno scorso? La lotta al contante – che, notate bene, è meno esposto di un conto in banca ai “prelievi” notturni in stile Giuliano Amato. Inoltre, l’invito a ridurre il carico fiscale su impresa e lavoro, facendo leva su “basi imponibili sottoutilizzate”, come “consumi” e “patrimonio“. Un aumento dell’Iva, in queste condizioni, è improbabile. Una stangata sulla ricchezza privata, stigma che la Germania ci rinfaccia da anni, è invece un modo molto più scaltro per far felice chi vuole tenerci al guinzaglio in cambio di due spiccioli.

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