Il pontificato di Francesco è stato e sarà a lungo dibattuto: se per alcuni è stato segno di un cambiamento autentico, secondo le necessità della Chiesa cattolica, per altri ha incarnato invece una pericolosa diluizione della dottrina in favore di una ricerca del consenso mondano e secolare. Tuttavia, qualunque sia il giudizio sul suo pontificato e sulle conseguenze per il popolo di Dio, il cosiddetto “bergoglismo” non esiste come corrente strutturata o come organizzazione coerente di istanze e persone. Al più, semmai, se ne può parlare nei termini di una suggestione, per certi versi alimentata da alcune politiche attuate da Bergoglio stesso, quali la nomina di un elevato numero di cardinali a cui, del resto, spetta il compito urgente e per certi versi gravoso di gestire il suo lascito.
Queste nomine, che coprono un’ampia estensione geografica (praticamente il mondo intero) e vista la poca propensione di Francesco a convocare concistori, hanno creato un fronte disomogeneo, come dimostrano le parole del cardinale honduregno Maradiaga, non elettore, che, deluso, lascia Roma lamentando la presenza “nel conclave [di] troppi traditori di Francesco”, e del cardinale Nichols che constata, durante le Congregazioni pre-conclave, che “non siamo tutti uguali”, alludendo a una sostanziale eterogeneità di vedute tra i porporati.
Ma è davvero così rilevante l’eredità di Francesco?
Il cardinale Müller, già prima dei funerali del 26 aprile, aveva ricordato che il conclave deve scegliere il successore di Pietro e non di Bergoglio, indicando il cuore della successione nella continuità petrina piuttosto che nella mera prosecuzione delle umane politiche immediatamente precedenti. Al contrario, il cardinale Kasper, in un’intervista a La Stampa, ha dichiarato che una discontinuità non sarebbe ammissibile per il futuro della Chiesa, tanto più che “tutti aspettano un nuovo Francesco”.
Tuttavia, al netto dell’opinabilità dell’affermazione, va ribadito che il consenso non è, né può essere, un criterio per la scelta del Papa.
La Chiesa cattolica, secondo la dottrina, non è un’entità democratica o orizzontale come può essere un partito né una chiesa riformata dotata di strutture partecipative orizzontali. La sua struttura è verticale, fondata sull’autorità di Gesù Cristo, trasmessa attraverso il magistero e la tradizione, come espresso nella costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Questa tradizione, insieme alla Scrittura, forma il deposito della fede, custodito e interpretato dal Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa stessa, nel tempo. Su questa linea, il cardinale Eijk, in un’intervista alla TV olandese di qualche settimana fa, ha affermato: “Meglio una Chiesa piccola e convinta che grande e indifferente”. In breve: la misura è la fedeltà alla Verità, non il peso della quantità (eventuale).
Eppure quella piccola parte di dibattito mediaticamente visibile, per ora, ha dato soprattutto indicazioni sulla velocità più che sull’intensità o sulla quantità.
Un aspetto cruciale del conclave infatti, secondo le dichiarazioni degli stessi cardinali che variamente si sono pronunciati in merito, sarà la durata. Da quella dipenderà la fluidità del processo e, di conseguenza, il nome del prossimo Papa.
Le loro opinioni, tuttavia, divergono spesso. Talvolta si contraddicono persino rispetto a quanto dichiarato in precedenza. Così Vesco, inizialmente ottimista e convinto che i tempi sarebbero stati brevi, e che ora invita invece alla cautela. E se Salazar Gomez e Kikuchi, tra la convinzione e la speranza, si augurano tutt’ora un conclave breve, Rueda Aparicio lascia intendere di avere un’idea di quali dinamiche potrebbero innescarsi e prevede una durata di due giorni. Woelki ipotizza, al contrario, un conclave lungo da sottoporre a un raffinato lavoro di mediazione.
Se davvero si arrivasse alla fumata bianca entro le prime due votazioni, con ogni probabilità, il nuovo Papa sarebbe il cardinale Pietro Parolin. Segretario di Stato, è emerso come favorito per l’elezione a pontefice già dal 21 aprile e tutt’ora viene considerato uno dei più papabili. Rappresenta un profilo conciliante, grazie alle sue capacità diplomatica, moderazione e conoscenza dei meccanismi curiali. Tuttavia, com’è noto, la magia della mediazione si regge su di un equilibrio sottile.
Dopo le prime due votazioni, la situazione potrebbe complicarsi, scrive Franca Giansoldati. Il cardinale Barbarin, in un’intervista a Paris Match, ha espresso dubbi: “Non vedo Parolin come il prossimo papa”.
Come scrive Il Messaggero, sarebbe inoltre osteggiato da un gruppo consistente di fedelissimi di Francesco che lo vedrebbero, al pari di Tagle, tiepido in vista del completamento dei processi di riforma avviati proprio da Bergoglio. Sandro Magister, dal suo blog, aveva in effetti già parlato dello scarso affidamento che Francesco avrebbe riposto in lui durante i lunghi giorni del ricovero. Per Tribune Chrétienne gioca un ruolo la finezza della costruzione della sua candidatura: per evitare alienazioni di consenso, si è espresso anche in direzione di alcune prese di distanza. D’altronde la mediazione funziona così e chi la pratica corre sempre il rischio di vedere l’equilibrio spezzarsi.
Inoltre non mancano controversie in merito alla gestione curiale. Inevitabili, data l’alta esposizione che il ruolo prevede e, in taluni casi, ascrivibili a una più generica condotta pontificale che non espressamente alla sua volontà.
Il complicato accordo con la Cina da lui negoziato è stato duramente criticato da più parti fin dal 2018. In particolare il cardinale di Hong Kong Joseph Zen, è arrivato a definire il cardinale veneto “bugiardo, sfacciato e audace” in risposta a un suo discorso tenuto a Milano nell’ottobre 2020: l’accusa è di aver svenduto la Chiesa al governo cinese, noncurante delle persecuzioni pluriennali subite dai cattolici in Cina. E in qualche modo, visto che la sostanza dell’Accordo rimane tutt’ora segreta, possiamo essere certi di talune forme di squilibrio, considerando il mai interrotto processo di nomina episcopale appannaggio del PCC.
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E anche il Memorandum Demos del 2022, circolato clandestinamente durante il periodo di Quaresima e attribuito al defunto cardinale Pell, aveva puntato il dito contro la scarsa rilevanza internazionale assunta dalla diplomazia vaticana in tempi recenti.
Ad ogni modo, al momento attuale si stima che Parolin possa contare su circa 40-50 voti, un numero elevato eppure insufficiente per l’elezione (che richiede i due terzi, ossia 89 voti su 133 elettori). Date le premesse potrebbe infatti rivelarsi molto complicato reperire i voti mancanti, vista anche la smentita autorevole, da parte dell’ambasciatore ungherese presso la Santa Sede Eduard Habsburg, delle voci su un possibile accordo tra Parolin e il cardinale Erdö.
Nel frattempo quella che sembrava inizialmente una corsa a tre (Parolin su tutti, ma poi anche Tagle e Zuppi ) si è infine complicata nel luogo periodo di sede vacante pre-conclave. Parolin continua a essere percepito come un candidato forte e lo prova la stessa vicenda del presunto malore, la cui notizia è stata diffusa e poi smentita direttamente da Matteo Bruni: se è vera, vuol dire che gode della protezione della Sala Stampa Vaticana; se è falsa, vuol dire che è temuto al punto di diventare oggetto degli strali della disinformazione. In ogni caso, come detto, è una candidatura importante, che però si trova a fare i conti con un conclave imprevedibile perché dalle caratteristiche inedite.
Lentamente, la sua posizione è stata insidiata anche dai vari Arborelius, Turkson, Erdö, Aveline, Grech, Ranjith, Ambongo e Pizzaballa (pare gradito a Ruini) tra gli altri. In sostanza, ci risulta estremamente difficile fare previsioni di sorta, essendo ancora aperte le due opzioni, dirimenti, sulla durata: volata o maratona?
In ogni caso il conclave è chiamato a una scelta storica, da cui dipenderà molto del futuro della Chiesa cattolica.
Il rapporto con il secolo, l’Europa, le chiese che si svuotano, la sfida del relativismo nelle sue nuove manifestazioni, il terzomondo, le guerre, la chiarezza della dottrina e, fondamentalmente, l’unità, come già diceva Müller giorni addietro (divisivo secondo la ricostruzione di Horowitz sul NYT) sono alcuni dei nodi critici che andranno sciolti a breve. Ma è anche una questione di metodo, secondo il compito storico di prediligere la fede all’“eccessivo pragmatismo”, come ebbe a dire ai vescovi l’allora cardinale Ratzinger nel 1999. Perché la Chiesa non è un partito né una ONLUS, al di là di ciò in cui vorrebbero trasformarla i suoi nemici.
Michele Ferretti, 7 maggio 2025
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