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11 settembre 2021: il trionfo dei Talebani e un Occidente in stato confusionale

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Vent’anni che pesano come un secolo

Gli aerei. Le altissime torri. La polvere. I pompieri. I salti nel vuoto a peso morto. Le liste interminabili di vittime. Bush col megafono sulle macerie. Siamo tutti americani. La guerra in Aghanistan. Siamo un po’ meno americani. L’Iraq. L’esportazione della democrazia. Non siamo mai stati americani. Le primavere arabe. La Libia. La Siria. Il disimpegno. Il ritiro. I Talebani di nuovo al potere.
Questa storia, tristemente circolare, è il nostro presente.

Forse non siamo nati l’11 settembre 2001 ma certamente quel giorno continua a perseguitarci. Avevamo appena chiuso i conti con il totalitarismo più sinistro della storia, che in nome di un millantato progresso si era dedicato all’annientamento sistematico della società civile, quando la terza religione millenarista e anti-moderna del secolo provava a riaprire il conflitto. Vent’anni dopo, il fondamentalismo islamico ha dimostrato una forza d’urto tutto sommato inferiore alle attese ma una resistenza e una capacità di rigenerarsi maggiore rispetto alle ideologie oscurantiste che l’hanno preceduto.

Se il fine della storia (non la fine) è la democrazia liberale, il sentiero è oggi più che mai minato dalla santa alleanza delle non-democrazie, un concetto che il realismo rifiuta ma che l’esperienza e l’intuito consigliano di non sottovalutare: l’Iran sciita, l’Afghanistan sunnita protetto da Islamabad e la Cina comunista si estendono su un unico corridoio. Complice Biden e il suo ritiro disperato, l’11 settembre 2021 non sarà il giorno del ricordo lugubre ma fiero di una tragedia non solo americana ma quello della celebrazione del trionfo talebano a Kabul. La storia non è finita ma la stanno scrivendo gli altri.

È paradossale ma, se c’è una costante nella politica occidentale dell’ultimo secolo, questa è il fattore sorpresa. Le potenze europee non videro arrivare lo sparo di Sarajevo e il conflitto che ne seguì, che nessuno voleva e che persero tutti, non solo gli sconfitti ufficiali. Non si accorsero del golpe bolscevico che avrebbero potuto soffocare con facilità, se solo avessero agito di concerto invece di affidarsi alle velleità dei generali bianchi. Non compresero l’avvento del fascismo, che blandirono e cullarono fino a quando fu troppo tardi. Si svegliarono di soprassalto quando la Wehrmacht entrò in Polonia, e dire che Hitler aveva avvisato. Negoziarono da una posizione di debolezza il sequestro di mezza Europa da parte dello stalinismo. Perfino la fine della Guerra Fredda colse le democrazie spaesate, quasi incredule, di fronte a una vittoria ottenuta più per abbandono dell’avversario che per meriti propri.

A celebrazioni ancora in corso fu Al-Qaeda a sorprenderci nel cortile di casa, dove ci sentivamo più sicuri. La reazione che ne seguì dimostrò che la forza era ancora con noi ma non la convinzione. Combattevamo per principi che, in fondo, cominciavamo a non sentire più nostri. L’orgoglio per le conquiste realizzate si trasformava, mediante una subdola azione di corrosione interna, in un senso di colpa irredimibile. Fino alle odierne derive della cancel culture e del neopuritanesimo woke, le ultime incarnazioni in ordine di tempo dell’ideologia anti-capitalista e anti-liberale.

La fuga dall’Afghanistan, strategicamente marginale ma moralmente devastante, in fondo non è che la rappresentazione teatrale di questa progressiva perdita della coscienza di sé, dell’abbandono – a volte inconsapevole, spesso del tutto volontario – dei principi e dei talenti che hanno fatto dell’Occidente la più avanzata espressione della civilizzazione umana. Non è stata un’atomica terrorista ma un virus arrivato chissà come dall’Oriente comunista a completare l’opera, svuotando le nostre città e confinandoci dietro mura fisiche e psicologiche sempre più impenetrabili. Vent’anni che pesano come un secolo.

È almeno dalla pubblicazione del sopravvalutatissimo saggio di Spengler (1918) che si specula sulla decadenza dell’Occidente. La decadenza è insita nell’esistenza. Eppure, perfino chi si oppone all’universalizzazione dei valori occidentali – centralità della persona, libertà e responsabilità individuali, stato di diritto, autonomia di iniziativa economica – è costretto ad assumerli come punti di riferimento, anche soltanto allo scopo di negarli. È la grande frustrazione dei fautori dei cosiddetti “modelli alternativi” – despoti, ideologi o semplici propagandisti -, impegnati in una costante opera di demolizione delle fondamenta delle democrazie liberali ma incapaci di riformularne i presupposti in modo da rendere attraente l’eventuale rimpiazzo.

Al contrario, quando gli avversari dell’Occidente decidono di lasciarsi alle spalle miseria e sottosviluppo devono necessariamente rifarsi al suo schema evolutivo (la Cina che rinnega il collettivismo e adotta il sistema economico capitalista ne è l’esempio paradigmatico), mentre i rapporti di forza all’interno di ogni regime (anche il più autoritario) non possono che misurarsi in termini di una costante tensione fra un potere statuale repressivo e una società civile incipiente. La ragione è semplice: l’Occidente e i suoi principi non sono semplicemente un’opzione tra le altre, come vorrebbero farci credere i relativisti morali di destra e di sinistra, ma un patrimonio dell’umanità, non un petalo tra i tanti nella margherita delle possibilità politiche e istituzionali ma il quadro essenziale alla loro realizzazione compiuta. Non c’è bisogno di immaginare un mondo senza Occidente per rendersene conto, basta osservare gli esiti catastrofici prodotti da chi nel corso della storia ha provato a farne a meno.

E allora, come si spiega questa strana sensazione di sconfitta? Come siamo passati dal proclamare che la libertà o è per tutti o non sarà per nessuno a decidere che, in fondo, la condizione delle donne afghane o la sterilizzazione di quelle musulmane nello Xinjiang non è affar nostro? Non si tratta di un dibattito accademico perché le ricadute di questa resa concettuale si riverberano inevitabilmente sul nostro quotidiano: non è forse la rinuncia alla difesa di principi che consideriamo universali l’annuncio della compressione di diritti e libertà all’interno delle nostre stesse società? Ci siamo dentro, mi sembra.

Quello della decadenza dell’Occidente è un falso problema, in ogni caso non uno che potremmo risolvere nel caso si presentasse davvero. Ciò di cui dovremmo occuparci con urgenza invece è il vuoto della politica occidentale (non della civiltà occidentale), simultaneamente causa e conseguenza dell’inconsapevolezza di opinioni pubbliche ormai disabituate alla contestualizzazione, al confronto, al pensiero critico, al giudizio. Noi, figli della ragione, l’abbiamo diluita in un nominalismo senza scopo, in un relativismo demenziale, confondendola con il magma indistinto del pensiero unico politicamente corretto. La specificità dell’Occidente, la sua unicità, si perde in una ritirata affannosa da se stesso, che di tattico non ha nulla, perché non esiste un obiettivo, solo confusione. Provate a chiedervi se lo sbarco in Normandia sarebbe possibile oggi. La risposta fa tremare i polsi.

È impossibile capire dove stiamo andando se non sappiamo da dove veniamo. Il linguaggio è rivelatore. Accusiamo i talebani di riportare l’Afghanistan al Medioevo, senza renderci conto che è il Medioevo – dalla fine del XII secolo – la culla della civiltà moderna, che nulla saremmo e nulla conteremmo senza l’affrancamento dalla signoria feudale, lo spirito del primo capitalismo, i nuclei urbani che si fanno soggetto politico, la secolarizzazione della città sacra. Esattamente l’opposto della società chiusa dei fondamentalisti. Ma siccome lo ignoriamo o ce ne vergogniamo, preferiamo tentare di “convincere” i tagliagole ad essere “inclusivi”. Tutto caricaturale, fumettistico, puerile.

La realtà, a vent’anni dal più criminale atto terroristico della storia, è là fuori. L’America non ha subito altri attentati, e certamente questo va annoverato come un successo. Il campo di battaglia si è però trasferito in Europa, 124 attacchi tra il 2014 e il 2020 (tra cui Parigi nel 2015 e Bruxelles nel 2016) e una crescente radicalizzazione di immigrati e rifugiati. È il jihadismo ambientale di cui ha scritto recentemente Gilles Kepel su Le Monde. Qualche anno prima della fuga da Kabul, l’arroccamento di Assad al potere in Siria aveva già mandato agli Stati Uniti un segnale preoccupante: l’egemonia militare americana poteva essere contrastata dall’intervento di potenze ostili. La war on terror, di fatto, finiva in quel momento a Washington. Il lungo ritiro dal fronte, culminato con la disfatta d’immagine del mese scorso, non decreta la fine dell’ordine mondiale a guida americana ma certamente un ridimensionamento del ruolo statunitense sullo scenario internazionale. Non è una buona notizia per nessuno, nemmeno per gli anti-americani.

È presto per suonare le campane a morto, le risorse economiche, militari e – nonostante tutto – morali dell’Occidente sono enormi e abbiamo superato prove ben più difficili. Ma quel che sta cambiando rapidamente è la percezione della nostra specificità, quella che ci ha resi universali, dal XII secolo ad oggi. Non si tratta di imporre i nostri principi, che continuano in molti casi a diffondersi soprattutto grazie alla forza dell’esempio. Si tratta, però, di difenderli e la difesa non può mai essere un’attitudine passiva: implica attività, iniziativa, movimento, capacità di ragionare, di convincere e – se necessario – di lottare.

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