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A destra senza isolarsi. Le ragioni di un conservatorismo capace di “fare squadra”

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Qualsiasi governo di sinistra si trova a godere di un pieno inserimento e di una piena accettazione, sia in termini di relazioni con i leader esteri che in termini di “buona stampa”. Se le sinistre fanno squadra, lo stesso non si può dire dei vari centro-destra. Ma è falso che le destre non riescono a parlare tra loro perché “nazionaliste”. Tutto da dimostrare che i rapporti tra i vari popoli siano articolati meglio in un quadro di “internazionalismo politico” anziché in un quadro di primato delle democrazie nazionali e locali. Essere conservatori non comporta alcun “nazionalismo” in senso deteriore, c’è solo bisogno di un importante lavoro per costruire ponti culturali tra i diversi centro-destra nazionali…

La sinistra ha tanti difetti, ma obiettivamente le va riconosciuta una notevole capacità strategica nella costituzione e nel consolidamento di relazioni politiche “di successo” in grado, in molti casi, di fare la differenza e persino di compensare gli effettivi esiti del voto quando ad essa non favorevoli.

Le relazioni e il “marketing” internazionali rappresentano parte importante di questa strategia. Essi fanno sì che qualsiasi governo di sinistra si trovi a godere di un pieno inserimento e di una piena accettazione nel consesso internazionale, sia in termini di relazioni con i leader esteri che in termini di “buona stampa”.

Invece, malgrado il centro-destra governi la maggioranza dei Paesi dell’Occidente, all’atto pratico è come se ogni governo e ogni forza politica di centro-destra si trovassero sistematicamente in una condizione di “pariah” sulla scena internazionale, finendo soggetti a ogni tipo di attacco e delegittimazione.

Del resto, a sinistra c’è sempre una corsa per intestarsi e per “coccolare” il leader progressista di successo del momento e, alla fine, poco importa che sia un moderato o un radicale: troverà sempre pagine e pagine di elogi su qualsiasi quotidiano del mondo occidentale – insieme ad una “provvidenziale” demonizzazione del suo avversario.

Se le sinistre fanno squadra, lo stesso non avviene sull’altra sponda.

Il miglior passatempo nel mondo moderato, di centro-destra e di destra è sempre quello di prendere le distanze dalle principali leadership estere – di mettere in chiaro che non si è certo dei “liberisti” e “imperialisti” come Reagan e la Thatcher, che non si è certo “guerrafondai” come Bush o “pazzi” come Trump, “avventurieri” come Boris Johnson, “burattinai” come la Merkel, “egoisti” come Rutte o Kurz, “clown” come Berlusconi o “xenofobi” come Salvini.

Possiamo scommettere che alle presidenziali Usa di novembre Biden si presenterà, di fatto, come “candidato mondiale”, mentre a Trump non arriverà nessuna forma di simpatia, sostegno o endorsement dagli ambienti di centro-destra degli altri Paesi.

E il fatto è che, su scala minore, lo stesso avverrebbe in qualsiasi altra elezione del mondo, anche a prescindere dal taglio politico o dallo stile di leadership. Chi è che, fuori dai rispettivi confini nazionali, alle ultime elezioni ha fatto veramente il tifo per un Boris Johnson? O per una Angela Merkel? O per un François Fillon? O per il nostro Silvio?

Qualcuno dirà certo che il fatto che i centro-destra si presentino in ordine sparso, a fronte della larga alleanza del progressismo mondiale, sia un esito intrinseco delle due differenti filosofie politiche. Mentre le sinistre promuovono la “fratellanza universale”, le destre sono “nazionaliste” e quindi non possono parlare tra loro.

Questo, tuttavia, è un grande malinteso.

In effetti è tutto da dimostrare che i rapporti tra i vari popoli siano articolati meglio in un quadro di “internazionalismo politico” anziché in un quadro di primato delle democrazie nazionali e locali.

La sensazione è che sia proprio il secondo lo scenario in cui le relazioni tra le diverse nazioni sono articolate in maniera più sana, meno conflittuale ed improntata ad un quadro di rapporti paritari ed orizzontali.

L’”internazionalismo”, invece, da un lato si traduce in una continua strategia di ingerenza politica che spesso limita e condiziona le scelte di politica interna dei vari Paesi, dall’altro viene a significare l’instaurazione, sotto varie forme, di dinamiche di spoliazione e di redistribuzione tra i territori, necessariamente conflittuali e tali da favorire deresponsabilizzazione delle classi politiche, azzardo morale e dinamiche di accaparramento.

In fondo le idee conservatici guardano senza dubbio più “all’interno”, a dinamiche ed interessi “locali”, ma lo fanno sulla base di valori e principi universali.

Curare bene il “proprio giardino”, assicurare la vivibilità e la praticabilità del tempo nel proprio Paese, mantenere le tasse basse e una piazza economica attrattiva per le imprese, avere un budget abbastanza equilibrato da non dover dipendere da prestiti o aiuti esteri, dare valore alla preservazione della coesione sociale e nazionale, garantire il diritto delle comunità nazionali e locali di determinare per via democratica le scelte politiche ed istituzionali fondamentali senza interferenze esterne. Questi sono tutti valori e principi di governo “di destra” da mettere a disposizione del proprio Paese, senza che ciò comporti minimamente un pregiudizio per le altre nazioni – anzi con la speranza che queste stesse linee guida si affermino anche presso i nostri vicini e il più possibile nel mondo.

Non si tratta di un programma “a favore di un Paese e a svantaggio degli altri”, bensì una concezione economica, sociale e civile che può, se applicata, funzionare e portare benefici ovunque – per lo meno in Occidente.

In fondo così come, scendendo al livello individuale, la ricchezza complessiva della società si accresce quanti più individui riescono a ben lavorare, prosperare e avere successo senza che ciò avvenga a spese degli altri, allo stesso modo un mondo complesso trae benefici dal fatto che più Paesi siano ben governati ed avviati in percorsi economici di sviluppo.

In questo senso essere conservatori non comporta alcun “nazionalismo” in senso deteriore. È piuttosto, se vogliamo, un “Think global, act local”. È il coraggio e la volontà di “fare bene” a partire dalla tua città, dalla tua regione, dal tuo Paese – e così facendo anche di contribuire a fare andare bene contesti più ampi.

A partire da queste considerazioni, si comprende che non c’è niente di “intrinseco” nella mancanza di comunicazione, solidarietà ed empatia tra i vari centro-destra; si tratta solamente dell’incapacità di comprendere il valore strategico che avrebbe un quadro di relazioni e di sistematica mutua legittimazione come quello che a sinistra è stato zelantemente costruito.

Quello che serve è realizzare come, per quanto si possa rifuggire dal “mondialismo” come ideologia, è molto difficile sopravvivere per un governo o per una forza politica senza un’alta “reputazione” sul piano internazionale, senza le relazioni e le amicizie “giuste”. Dobbiamo saper essere “conservatori e cosmopoliti”. Per questo c’è bisogno di un importante lavoro per costruire ponti culturali tra i diversi centro-destra nazionali, persino quando animati da connotazioni ideologiche differenti – perché in fondo a sinistra non è che si facciano tutte queste schizzinose distinzioni.

È un lavoro che non riguarda solo i leader politici, ma anche giornalisti e intellettuali. Serve conoscere e far conoscere le varie esperienze liberali, moderate e conservatrici, riconoscendone ma anche rispettandone le differenze. Serve provare a costruire una nuova solidarietà che coniughi il rispetto del diritto dei popoli ad autogovernarsi con la consapevolezza del profondo livello di interdipendenza tra i destini delle economie e delle democrazie occidentali.

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