Dovunque, in televisione e su YouTube, politici, economisti e personalità vicine al mondo della politica se la prendono con una presunta “rivoluzione neoliberista”, che sarebbe da imputare principalmente alle riforme del mercato del lavoro portate avanti dal Governo Renzi fra il 2014 e il 2015, responsabili a loro dire della perdita di dignità del lavoratore, della riduzione dei salari, degli orari e della stabilità dell’occupazione. Preoccupazioni più o meno legittime, ma cosa c’è di neoliberista?
Risulta evidente a qualsiasi osservatore che con il progresso tecnologico, sempre più accelerato dalla rapida ascesa delle macchine e dei robot, ci sarà sempre maggiore necessità di forme di lavoro flessibili, tali da potersi adattare con facilità alle richieste sempre in evoluzione del mercato. È una realtà che non può essere antistoricamente negata, in senso luddista, a favore del mito di un posto fisso ad assenza di rischio, poiché i repentini e spesso imprevedibili aggiustamenti di mercato possono spazzare via tipologie di impiego ritenute resistenti al progresso, rischio che viene corso, per esempio, da professioni come quella dell’agente assicurativo o del mediatore creditizio.
Viene perciò da sé, che le varie fattispecie di contratto – a tempo determinato, parziale, intermittente, agile, telelavoro – introdotte con il Jobs Act, da un lato appoggiano queste nuove spinte del mercato, ma dall’altro prendono atto di una situazione di crisi endemica che attanaglia da quasi dieci anni l’economia del nostro Paese, riconoscendo così alle imprese maggiori libertà in termini di scelta del capitale umano in base alle proprie necessità e alleggerendo quelli che erano, e sono ancora in parte, gli insostenibili costi di assunzione e licenziamento del personale.
La lamentela ricorrente che proviene dagli ambienti della verasinistra™, di cui si può prendere atto sotto certi punti di vista, ma che suona spesso come una beffa, è che questi interventi legislativi sarebbero stati prociclici rispetto alla crisi, che i poveri saranno sempre più poveri, sfruttati e con prospettive di un futuro lavorativo non edificante.
Il punto di vista di uno studente universitario, proveniente da una famiglia di lavoratori dipendenti e che presto dovrà iniziare a confrontarsi con la realtà del lavoro, è che quella del 2015 (il cosiddetto Jobs Act) è stata una rivoluzione solo parziale, iniziata dalla fine direi, perché prima di questo riconoscimento legislativo della necessità di forme di lavoro meno rigide, sarebbe stata necessaria una riforma della scuola, più aperta all’informatica, e uno shock fiscale, come avviene oggi oltreoceano con l’amministrazione Trump, tale da ridare fiducia al Paese, prospettive di crescita e invertire il trend delle delocalizzazioni.
In un Paese con un’economia stagnante, in cui la pressione fiscale supera il 40 per cento del Pil, è assolutamente necessario cambiare passo anche per invertire la rotta dell’esodo di giovani e della scarsissima natalità. L’effetto dovrebbe essere quello di promuovere una nuova consapevolezza, una rivoluzione culturale che rivaluti il posto di lavoro per quello che è e non al pari di una benedizione divina, promanata dal potente di turno.
Si presenta per l’attuale maggioranza di governo la possibilità di semplificare radicalmente il sistema fiscale e di ridurne il carico: sarebbe un grande successo se si riuscisse a completare la rivoluzione in questo senso, ma si tratta di una serie di provvedimenti cui si dovrebbe accompagnare una accurata revisione delle spese dello stato, una maggiore collaborazione e disponibilità da parte delle istituzioni europee in termini di scostamento dagli obiettivi di bilancio e possibilmente una maggiore compattezza delle forze di governo nel far valere le proprie ragioni. Le opposizioni di destra e di sinistra remano contro: che non abbiano mai avuto alcun vero interesse nel promuovere la crescita, preferendo lasciare andare la barca con la mancetta, il sussidio, nascondendosi dietro il dito dei vincoli di bilancio e dei “ce lo chiede l’Europa”?