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Altro che “isolato”: da Amburgo a Buenos Aires il G20 parla la lingua di Trump

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La memoria, che sia a lungo o a breve termine, non è esattamente il forte di politici e giornalisti. O meglio: tende ad essere piuttosto selettiva. Noi di Atlantico però ricordiamo bene le dichiarazioni-sentenza e le paginate di analisi ed editoriali a cavallo dell’elezione di Donald Trump nel novembre del 2016, e ci chiediamo dove siano finiti tutti quelli che prevedevano che gli Stati Uniti si sarebbero trovati isolati a causa del loro nuovo presidente e delle sue politiche.

L’errore di fondo è scambiare per isolamento di una grande potenza l’antipatia personale, l’irritazione o la dialettica politica che il suo presidente pro tempore può suscitare in alcuni dei leader mondiali.

Ma un presidente “isolato” non torna a casa dal G20 di Buenos Aires con i tre risultati che può vantare Trump: la dichiarazione finale congiunta che sembra scritta su misura del suo programma “America First”; la firma del nuovo Nafta, il nuovo accordo di libero scambio nordamericano con Messico e Canada; una tregua nella guerra dei dazi con la Cina dopo i primi (e naturalmente tutti da verificare) impegni arrivati, e per nulla scontati alla vigilia, da Pechino. In altri tempi, tempi obamiani per esempio, si sarebbe celebrato il capolavoro. Qui ci limitiamo a ricordare l’ovvio: piaccia o no Trump, che ottenga o meno risultati solidi la sua azione, l’America non si può isolare.

Pur di avere la sua firma sul comunicato finale – un G20 senza Stati Uniti non avrebbe senso – gli altri leader hanno accettato le condizioni americane. Un chiaro successo per un presidente che valuta l’utilità dei consessi multinazionali da quanto siano funzionali agli interessi Usa, o almeno non confliggenti con essi, mentre aver evitato lo scontro sembra l’unica consolazione per quei leader che avevano accarezzato l’idea di sfidarlo – o almeno così si illudevano i media liberal. La realtà è che nessuno può permettersi che le tensioni con gli Usa superino i livelli di guardia, anche perché è ormai chiaro che Trump fa maledettamente sul serio.

Nei retroscena della vigilia veniva riportata con una certa sorpresa, come una novità, la durezza negoziale del consigliere Usa Bolton, ma in realtà è dal G20 di Amburgo che nella dichiarazione finale gli altri leader si vedono costretti a scendere a compromessi col nuovo corso di Trump: fair trade oltre che free, globalizzazione da correggere, il diritto sovrano degli stati al controllo dei confini e il primato dell’interesse nazionale. Il linguaggio del G20 era già cambiato allora: un vertice che avrebbe dovuto incoronare Angela Merkel come “nuova leader del mondo libero” al posto del cattivo Trump, si concludeva con un documento finale pervaso di echi trumpiani.

Se ad Amburgo veniva ribadito l’impegno per il libero commercio e a “tenere i mercati aperti”, si citavano le “pratiche commerciali scorrette” e si riconosceva “l’uso di strumenti legittimi di difesa commerciale” (la politica dei dazi appena inaugurata da Trump), dalla dichiarazione di Buenos Aires sparisce ogni riferimento ai rischi sistemici del protezionismo, si ribadisce il “contributo che il sistema multilaterale dei commerci ha dato” alla crescita, alla produttività, all’innovazione, al lavoro e allo sviluppo, ma si avverte che “questo sistema sta attualmente mancando i suoi obiettivi e c’è spazio per migliorarlo”. Per la prima volta nero su bianco, quindi, un riferimento alla necessità di riformare l’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto, “per migliorarne il funzionamento”, come insiste l’amministrazione Usa. Organizzazione da cui Trump ha già minacciato di ritirare gli Stati Uniti se non viene riformata. E i precedenti, dall’accordo sul clima di Parigi al Nafta, fino all’Iran Deal, suggeriscono di prendere sul serio le minacce del presidente.

Dunque, dopo lo sdoganamento del ricorso ai dazi come legittima arma di difesa commerciale – tra l’altro usata da tutti, Cina e Ue in primis, mentre solo gli Stati Uniti fino ad oggi non se ne erano avvalsi – un nuovo step del piano di Trump per ridisegnare le regole del commercio globale è stato messo in cantiere: la riforma del Wto.

Sui cambiamenti climatici il G20 di Buenos Aires si è limitato a confermare la divergenza già emersa dopo il ritiro Usa dall’accordo di Parigi, mentre sembra allargarsi il fronte dei Paesi scettici. Sull’immigrazione, nulla più che una constatazione del fenomeno, che desta “preoccupazione globale”, e un generico riferimento ad “azioni condivise per affrontare le cause alla radice”.

Il vertice argentino è stato per Trump anche l’occasione per la firma del nuovo Nafta, l’accordo siglato da Bill Clinton che in campagna elettorale aveva bollato come il “peggiore mai firmato”. Ricordate quanti, allora, ma anche dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ritenevano impossibile rinegoziarlo e liquidavano con sprezzante ironia l'”ingenua” promessa trumpiana? Oggi il nuovo Nafta, ribattezzato USMCA, è realtà (o quasi, deve ancora essere ratificato dal Congresso), ma a stento se ne parla da queste parti.

Infine, la tregua sui dazi. “I rapporti con la Cina hanno fatto un grande passo avanti. Succederanno cose molto buone”, ha scritto Trump su Twitter dopo il suo incontro con il presidente cinese Xi Jinping a margine del G20 a Buenos Aires. “Stiamo trattando da un punto di forza, ma allo stesso modo la Cina avrà molto da guadagnare, se e quando un accordo sarà completato. Stesse condizioni per tutti!”.

In gioco non solo meno dazi sui prodotti Usa per aumentare le importazioni cinesi e così riequilibrare gradualmente il disavanzo commerciale, ma anche il cruciale tema del rispetto della proprietà intellettuale, su cui Pechino fa da sempre orecchie da mercante sia con Washington che con Bruxelles, e poi le barriere non tariffarie, i cyber attacchi e la manipolazione del cambio. Un accordo complessivo, insomma, le cui basi però dovranno essere concretamente gettate entro i prossimi tre mesi.

“È la prima volta che abbiamo da parte loro l’impegno per un vero accordo”, ha spiegato il segretario al Tesoro Steven Mnuchin alla Cnbc, sottolineando però la necessità di “solidi passi avanti” e avvertendo che l’amministrazione non accetterà alcun temporeggiamento da parte cinese: “Noi abbiamo assolutamente bisogno di avere qualcosa di concreto in questi 90 giorni”.

Per la prima volta quindi Pechino si sarebbe mostrata disponibile ad un accordo complessivo. Da qui la decisione americana di “congelare” l’aumento dei dazi dal 10 al 25 per cento su 200 miliardi di merci cinesi previsto per gennaio, e l’offerta cinese di “consistenti e immediati” acquisti di prodotti made in Usa (auto e prodotti agricoli ed energetici) come gesto di buona volontà. Dopo questi tre mesi sapremo se quello di Pechino è l’ennesimo bluff, o se la partita si aprirà davvero.

Per il momento, i mercati tirano un sospiro di sollievo, ma la tregua con la Cina potrebbe indurre Trump a tornare tough con l’Europa. Se dovesse tornare alla carica con i dazi sulle auto europee, non trovando ancora seguito le aperture di Juncker alla Casa Bianca prima dell’estate, e per di più dovesse profilarsi uno scenario di hard Brexit, i produttori europei di auto vedrebbero addensarsi minacciosissime nubi su due dei loro principali mercati.

Ancora una volta, in conclusione, la realtà si è incaricata di smentire “esperti” e mainstream media. Come suggeriscono la firma del nuovo accordo di libero scambio con Canada e Messico e le aperture (da verificare, ma inedite) di Pechino ad una maggiore liberalizzazione dei mercati cinesi, “America First” non significa “America alone”, Trump non è arrivato per sfasciare la globalizzazione ma cercare di correggerne gli squilibri, sia tra gli stati che all’interno di essi.

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