Esteri

Canada: l’uscita di Trudeau e il fattore Trump dietro la vittoria dei Liberal

La clamorosa rimonta iniziata con le dimissioni di Trudeau e l’elezione di Carney ma la crisi dei dazi ha spiazzato i Conservatori: non è bastato un risultato record. La stella dell’Alberta

Il risultato delle elezioni canadesi, per quanto a questo punto atteso sulla base dei sondaggi delle ultime settimane, rappresenta uno dei più clamorosi e repentini ribaltamenti delle tendenze elettorali.

Solo quattro mesi fa il Partito Liberale appariva agonizzante, accreditato ormai di meno del 20 per cento dei voti ed in ritardo anche di 30 lunghezze rispetto al Partito Conservatore di Pierre Poilièvre.

Il cambio in corsa

Inflazione, crisi abitative, scandali e perdita di consenso delle politiche woke avevano reso ormai il governo di Justin Trudeau assolutamente impopolare. Dopo aver cercato a lungo di difendersi nel fortino, il premier aveva dovuto alzare bandiera bianca di fronte alla rivolta dei deputati liberali certi ormai di essere falcidiati alle elezioni.

La nomina di un nuovo leader del partito – e quindi primo ministro – a poche settimane dal voto era qualcosa di irrituale, da molti letto come una mossa disperata dei Liberali mirante non tanto a vincere le elezioni, quanto a limitare i danni evitando la disfatta.

In effetti, fin dal momento delle dimissioni di Trudeau, il Partito Liberale ha ricominciato a guadagnare terreno, tendenza che si è accentuata con l’elezione del nuovo leader Mark Carney, considerato da molti una figura seria e competente in grado di portare in politica molta più concretezza, in discontinuità con l’immagine ormai stucchevolmente pop del premier uscente.

Il fattore Trump

Pochi, tuttavia, ritenevano che Carney potesse arrivare a vincere le elezioni. Gli ha dato una grossa mano, spiace dirlo, la politica adottata da Donald Trump nei confronti del Canada che, nel giro di poche settimane, ha spostato l’attenzione dai “pasticci” del governo Trudeau ed ha offerto al nuovo premier liberale la possibilità di presentarsi come leader “patriottico” attorno a cui i canadesi potevano riunirsi.

Questo nuovo scenario ha sostanzialmente spiazzato la campagna del Partito Conservatore al quale, in condizioni ordinarie, sarebbe bastato vivere di rendita sul malcontento generale nei confronti degli ultimi anni di governo liberale.

Nella pratica, Pierre Poilièvre non ha avuto alternative a fare a gara con Carney a chi era più risoluto nel tenere testa a Trump, però godendo di un palcoscenico secondario rispetto al nuovo premier. Così, da leader che doveva essere, è stato costretto a fare una campagna elettorale da “follower”.

Il successo dei Conservatori

Ora, in realtà non è che le elezioni per i Conservatori siano andate male. Sono scesi rispetto ai sondaggi delle ultime settimane del governo Trudeau, ma hanno ottenuto il miglior risultato in termini di voti dagli anni ’80, in crescita del 7,5 per cento rispetto al voto del 2021. Il 41,3 per cento conseguito dai Conservatori, in un’elezione normale avrebbe consentito di ottenere il governo, probabilmente anche la maggioranza assoluta.

Tuttavia, queste elezioni hanno visto un’inedita convergenza verso il bipartitismo, con il Partito Liberale in grado di assorbire parte importante dei consensi dei partiti minori. Crolla, in particolare, la sinistra del New Democratic Party che pure, qualche mese fa, sognava il sorpasso nei confronti dei Liberali. Retrocedono anche i Verdi, così come i separatisti del Bloc Québécois.

Nella pratica, Carney ha finito per rappresentare, per tutto lo spettro politico che va dal centro alla sinistra, la candidatura “di unità nazionale” in grado di gestire al meglio la crisi che si è venuta a creare con gli Stati Uniti.

Ontario e Québec decisivi

Con le Praterie, come sempre, solidamente conservatrici, la vittoria liberale ha preso corpo prevalentemente nell’Ontario e in Québec. L’Ontario è la provincia che più frontalmente si è sentita sotto attacco dei dazi americani. Localmente è governata da un premier di centrodestra, Doug Ford. Tuttavia, essendo i sistemi partiti provinciali in Canada indipendenti da quelli federali, il premier dell’Ontario non ha avuto problemi a fare squadra con il premier liberale Carney per coordinare una forte risposta politica contro Trump.

In Québec, poi, la preoccupazione nei confronti di apparenti mire egemoniche americane ha spostato parte dell’elettorato francofono dal voto indipendentista al sostegno ad una Ottawa “liberale”,  vista – in questa fase di forte confronto con gli Stati Uniti – come un baluardo difensivo più forte rispetto ad una dimensione esclusivamente quebecchese.

Verdetto severo per Poilievre

Pierre Poilièvre ha pagato alle circostanze di questi ultimi tre mesi un prezzo immeritato. Esponente di un conservatorismo anglosassone classico, fondato su libero mercato e libertà individuale – un “blue tory” come lo si definisce nel lessico politico canadese – aveva costruito per il suo partito, nei due anni e mezzo in cui l’ha guidato, una posizione forte e una piattaforma solida e appetibile.

E, comunque, anche nella sconfitta rispetto a Carney, porta il suo partito a rappresentare molti più canadesi di quanto non sia avvenuto sotto i leader precedenti.

Sul piano personale, tuttavia, resta con un pugno di mosche. La sconfitta nel suo collegio mette a rischio la sua possibilità di continuare alla guida dei Conservatori, ruolo per cui è apparso tutt’altro che inadeguato.

La thatcheriana dell’Alberta

A destra, invece, brilla sempre più la stella della premier dell’Alberta Danielle Smith, la più cristallinamente liberale classica e thatcheriana tra i politici canadesi. Risoluta paladina della sua provincia e dell’Ovest canadese, potrebbe rappresentare la vera leader dell’opposizione rispetto a Carney, anche in virtù della sua sempre maggiore statura internazionale.

Tra un viaggio a Washington per fare lobbying sui Repubblicani americani contro i dazi e uno in estremo oriente per promuovere opportunità commerciali per la sua provincia, sembra quasi cominciare a muoversi come un premier ombra. Se Poilièvre dovesse trovarsi a passare la mano, la Smith potrebbe seriamente accarezzare l’idea di lasciare l’Alberta e fare il grande salto verso la politica federale.

Potrebbe essere al capolinea, invece, la carriera di Maxime Bernier, il libertarian, dopo aver sfiorato l’elezione alla leadership conservatrice, da qualche anno ha deciso di mettersi in proprio. Il suo tentativo di far crescere, alla destra dei Conservatori, un partito “alla Trump-Farage” pare ormai naufragato. La sua creatura, che nel 2021 aveva sfiorato il 5 per cento, oggi scende allo zero virgola – vittima, anch’essa, della rinnovata dinamica bipartita della politica canadese.

La crisi dei dazi

Nei fatti, la crisi dei dazi ha privato il conservatorismo canadese di un’occasione storica, per quanto ci si possa consolare con il fatto che Mark Carney rappresenti comunque una qualche correzione di rotta rispetto agli anni del progressismo modaiolo di Justin Trudeau.

Vedremo come il rieletto governo liberale declinerà le proprie politiche verso gli Stati Uniti e verso l’Europa. Il 3 maggio, intanto, si vota in Australia e stando alle tendenze dei sondaggi negli ultimi 3 mesi, il copione canadese potrebbe ripetersi.

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