Esteri

Il dopo-Hamas: l’idea “Abramo-plus” e le nuove leadership necessarie

Un approccio economico complementare agli Accordi di Abramo, ma serve transizione di potere nell’ANP e in Israele. Il disimpegno Usa fonte di instabilità

Netanyahu Biden Gaza © pawel.gau tramite Canva.com

Il Medio Oriente, un crocevia geografico di complessità storiche e intricate ambizioni geopolitiche contemporanee, rimane un punto focale delle dinamiche globali. L’esplosione della guerra a Gaza dopo l’atroce attacco terroristico contro Israele da parte di Hamas serve come un vigoroso promemoria, in primis agli Stati Uniti d’America, che svincolarsi dall’impegno diretto in questa regione volatile è una proposizione politica evanescente.

Il disimpegno Usa

Il disimpegno americano ebbe inizio con la nuova strategia regionale del presidente Barack H. Obama tra il 2009 e il 2017. Il graduale ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan mirava a un cambio di paradigma.

L’idea alla base della strategia di Obama era privilegiare l’addestramento di forze di sicurezza locali rispetto all’intervento militare diretto. La diplomazia multilaterale, esemplificata dall’accordo sul programma nucleare iraniano (JCPOA) del 2015, cercava di gestire la minaccia nucleare senza ricorso alla deterrenza militare. Tuttavia, le conseguenze non previste, epitomizzate dalla guerra civile siriana, hanno evidenziato le insufficienze connesse al fare affidamento esclusivamente su attori regionali per la stabilità dell’area.

Il presidente Joseph R. Biden ha continuato a privilegiare la diplomazia multilaterale, specialmente con il riavvicinamento alla Repubblica Islamica dell’Iran attraverso i negoziati di Vienna sulla ripresa del JCPOA. Tuttavia, con la persistente instabilità nel Medio Oriente, la strategia Usa elaborata dalle amministrazioni democratiche si è rivelata un fallimento.

Precedenti storici, manovre diplomatiche e dinamiche di potere in evoluzione hanno riposizionato gli Usa nel labirinto della geopolitica del Medio Oriente, dimostrando che il loro disimpegno dalla regione è fonte di instabilità.

Le tre opzioni di Sullivan

Come riportato da Karl Maier su Bloomberg, il consigliere per la sicurezza nazionale Jacob J. Sullivan sta già da tempo lavorando a uno scenario post-Hamas. Sullivan si confronta ora con tre opzioni distinte per una risoluzione, ognuna con le sue implicazioni, alla ricerca di un precario equilibrio diplomatico.

(1) Controllo temporaneo da parte dei vicini regionali – Una prima opzione prevede il conferimento del controllo temporaneo su Gaza a Paesi della regione. Questo approccio immagina una forza multinazionale, tra cui truppe Usa, britanniche, tedesche e francesi, insieme a contributi da parte di nazioni arabe come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Questa opzione mira a portare stabilità nella regione attraverso la collaborazione internazionale e la supervisione araba.

(2) Forza di peacekeeping modello Sinai – Un’altra opzione propone l’istituzione di una forza di peacekeeping simile al modello operante nel Sinai. Questa forza avrebbe il compito di far rispettare le condizioni del trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele. Sorprendentemente, Israele potrebbe accettare questa idea, e potrebbe servire come meccanismo per mantenere la pace dopo il conflitto.

(3) Sorveglianza temporanea dell’Onu – La terza opzione suggerisce un governo temporaneo per la Striscia di Gaza sotto l’egida delle Nazioni Unite. Questo offrirebbe una soluzione legittimata a livello internazionale alle complesse questioni in gioco. Tuttavia, le comprensibili riserve di Israele riguardo all’Onu potrebbero complicare la fattibilità di questa proposta.

Transizione di potere nell’ANP

Qualunque sia l’esito, una transizione di potere in Palestina sembra inevitabile, e gli analisti indicano due potenziali leader, Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti, per la successione al vertice dell’Autorità Palestinese. Mentre si avvicina la fine dei 25 anni di leadership di Abu Mazen, gli interessi degli Usa convergono sull’influenzare il futuro della leadership dell’AP.

Mohammed Dahlan, con la sua storia in qualche modo legata agli Accordi di Abramo, emerge, nonostante le controversie sulla sua persona, come una figura centrale, offrendo una forza pragmatica e potenzialmente stabilizzante. Marwan Barghouti, non meno controverso, rappresenta un’alternativa secolare, avversaria dei Fratelli Musulmani, con un coinvolgimento storico nei processi di pace.

La posta in gioco è alta nella determinazione del successore di Abu Mazen, non solo per la Palestina ma per la stabilità regionale. Gli Usa mirano a sfruttare i cambiamenti di leadership per rafforzare l’Autorità Palestinese dopo l’eradicazione di Hamas, cimentandosi, tuttavia, in un esercizio di equilibrismo diplomatico per plasmare il futuro della politica palestinese.

L’approccio economico: “Abramo Plus”

Tuttavia, l’ingarbugliata rete di dinamiche regionali richiede approcci sfumati. La soluzione dei due Stati, un tempo vigorosamente sostenuta, è oggetto di crescente scetticismo, richiedendo una rivalutazione della fattibilità di uno Stato palestinese autonomo, specialmente dal punto di vista economico.

L’ambasciatore Sergio Vento, ex capo missione italiano presso l’Onu e presso gli Usa, propone un approccio economico “Abramo Plus” per complementare le conquiste diplomatiche degli Accordi di Abramo. Questa visione ampliata mira a neutralizzare le cause alla radice del conflitto israelo-palestinese favorendo lo sviluppo economico nei territori palestinesi. Investendo in modo sostanziale in infrastrutture, assistenza sanitaria ed istruzione in Giudea e Samaria, “Abramo Plus” mira a smorzare tangibilmente le ostilità e a costruire fiducia tra le parti.

Le complessità nell’attuare “Abramo Plus” risiedono nella necessità di superare la diffidenza di lunga data e nella difficoltà di coordinare gli sforzi internazionali. La proposta riconosce che una pace sostenibile dipende non solo da soluzioni politiche ma anche dal miglioramento del benessere economico della popolazione della regione.

Le basi per una tale visione erano già state poste dal Piano Kushner-Berkowitz. Concepito da Jared C. Kushner, Avrahm Berkowitz e Jason D. Greenblatt e presentato nel 2019, il piano fa eco a tentativi storici come il “Processo di Casablanca” del 1984 ideato da Shimon Peres. Progettato per migliorare le condizioni economiche dei palestinesi, il piano è stato però criticato dalla leadership palestinese per subordinare le questioni politiche fondamentali agli incentivi economici.

Cambio di paradigma

Mentre l’approccio basato sull’economia ha paralleli storici, la sfida rimane: può una soluzione politica completa basarsi esclusivamente su iniziative economiche? Lo status di Gerusalemme, la questione dei confini e gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria restano questioni controverse, che richiedono una strategia sottile per superare il massimalismo palestinese.

Tale strategia esiste. Gli Accordi di Abramo, firmati nel 2020, hanno raggiunto risultati permanenti, frantumando lo storicamente unito fronte arabo e avviato un significativo cambiamento nelle dinamiche regionali. L’inaspettata opposizione alle misure proposte contro Israele al vertice della Lega Araba dell’11 novembre rivela fratture all’interno del mondo arabo. Le decisioni degli attori principali di questa dinamica potranno plasmare il futuro della regione, determinando se gli Accordi di Abramo potranno sviluppare una nuova era di collaborazione o piuttosto saranno causa di nuove tensioni.

Come riportato dal Times of Israel, il potenziale ritorno di Sir Anthony C.L. Blair come coordinatore umanitario per Gaza, unito alla nomina di Lord David Cameron a Foreign Secretary del Regno Unito, aggiunge sagacia diplomatica alla complessa trama della regione. Il precedente ruolo di Blair come rappresentante del Quartetto per il Medio Oriente (2007-2015) e la recente nomina di Cameron evidenziano gli sforzi per navigare nelle complessità regionali e prevenire l’escalation della crisi.

Il duo giustifica anche la Brexit, poiché il Regno Unito, libero di perseguire non solo politiche commerciali indipendenti ma anche politiche di sicurezza, recupera influenza regionale nei confronti di un’impalpabile Unione europea.

Transizione in Israele

Ma anche la politica interna israeliana non è immune dalla necessità di cambiamento. È sempre più plausibile una ordinata transizione di leadership, che potrebbe essere l’unico modo per aprire un nuovo capitolo nelle relazioni israelo-palestinesi.

La controversa leadership di Benjamin Netanyahu dimostra anche l’urgenza per incisive riforme elettorali. La rappresentanza proporzionale ha portato a instabilità governativa e ha dato un potere sproporzionato a partiti marginali. Nel frattempo, la figura rispettata del ministro della difesa Yoav Gallant emerge come possibile successore di Netanyahu in un governo post-bellico.

La ricostruzione

Come evidenziato, permangono dubbi sulla fattibilità della soluzione dei due Stati, in particolare per quanto riguarda la sostenibilità economica di uno Stato palestinese autonomo. Ma in mezzo alle incertezze della regione, la ricostruzione post-conflitto emerge come una via certa per avviare una nuova era di collaborazione.

Lo sforzo deve essere intrapreso senza un esito predefinito in mente. Soluzioni innovative non legate a storici rancori palestinesi e indifferenti alle passate aspirazioni palestinesi devono essere messe sul tavolo e accettate senza abbarbicarsi a fondamentalismi panarabi per un Israele sicuro e un Medio Oriente pacificato.

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