Esteri

La CPI si dimostra un’aberrazione giuridica e una moderna Inquisizione

Surreali i mandati di arresto su Netanyahu e Gallant, ignorati i limiti imposti alla Corte proprio dal diritto internazionale. Immorale equivalenza tra Israele e Hamas

Aja Netanyahu

Da tempo, la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aja non è più un tribunale di giustizia, ma una moderna Inquisizione, che si cimenta in una caccia alle streghe antisionista piuttosto che nell’applicazione del diritto.

Il mandato di arresto

Con una mossa premeditata, che sfida il concetto stesso di sovranità statuale e le sue legittime prerogative, e facendo della sedicente giustizia internazionale una farsa, la CPI ha spiccato un mandato di arresto internazionale nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant, accusandoli di responsabilità diretta per presunti crimini di guerra asseritamente commessi dalle Forze di difesa israeliane (IDF) durante il conflitto a Gaza ancora in corso.

La Pre-Trial Chamber (la Camera preliminare della CPI) ha infatti deliberato che vi sono prove sufficienti per il rinvio a giudizio. Con un’ordinanza emessa su richiesta del procuratore generale Karim Khan, KC, la Camera preliminare ha respinto le obiezioni presentate dallo Stato di Israele – che ne contestava la carenza di giurisdizione – arrogandosi la competenza sul caso e autorizzando dunque l’emissione del mandato di arresto.

In un tentativo di falsa imparzialità, in realtà una provocazione, la CPI ha anche emesso un mandato di arresto per il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, ucciso in un attacco dell’IDF a Gaza nel luglio scorso. È grottesco che la CPI emetta un mandato per due vivi e uno morto, dimostrando non solo un disprezzo per la realtà dei conflitti, ma anche una palese incoerenza nel trattare le responsabilità di uno Stato democratico da un lato e di un’organizzazione terroristica dall’altro.

Il contesto della CPI

La CPI, fondata nel 1998 per perseguire crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, ha un mandato controverso e spesso accusato di applicazione selettiva. Nonostante 124 stati abbiano firmato il trattato istitutivo, la giurisdizione della Corte è limitata ai Paesi aderenti o a situazioni specifiche identificate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, condizioni che non si applicano a Israele.

Lo Stato ebraico non è parte firmataria dello Statuto di Roma, il trattato internazionale istitutivo della Corte, e come Stati Uniti, Russia, Cina e India, non si è posto sotto la giurisdizione della CPI.

La giurisdizione su Israele e gli Accordi di Oslo

Israele non ha mai accettato la competenza giudiziaria della CPI. Gli Accordi di Oslo, firmati con l’Autorità Palestinese, stabiliscono che le questioni penali per fatti commessi nei territori contesi sono sottratte ai meccanismi di risoluzione giudiziaria, dovendosi negoziare bilateralmente al livello politico. Gli accordi, inoltre, escludono esplicitamente la competenza della CPI. Questo rende la richiesta di mandato un’aberrazione giuridica, che ignora i limiti imposti alla Corte proprio dal diritto internazionale.

Di fatto, la decisione della CPI si inserisce in un contesto di crescenti pressioni politiche contro Israele, alimentate da organizzazioni e governi spesso accusati di antisemitismo mascherato da attivismo umanitario. Il caso dimostra ancora una volta come alcune istituzioni sovranazionali agiscano più come centrali antisioniste che come custodi di un diritto internazionale equo e imparziale.

La CPI oltre la giustizia

L’azione della CPI di intervenire mentre il conflitto è in corso è un’aberrazione giuridica di proporzioni surreali. La giustizia, per essere tale, richiede una distanza temporale e un raffreddamento delle tensioni che un conflitto attivo non può mai garantire.

Anche il processo più emblematico, quello di Norimberga, si svolse solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando le prove erano più chiare e le passioni smorzate. In un conflitto armato, le decisioni giuridiche non possono prescindere dal contesto politico in cui si inseriscono. La giustizia non può essere una vendetta mascherata da processo, né un giudizio che nasce dalla politica del momento. Pretendere che la giustizia possa essere esercitata in tempo reale, e non dopo il fatto, è un controsenso che solo un’istituzione ideologicamente schierata può sostenere.

Inoltre, l’attivismo giudiziario, che già di per sé rappresenta un pericolo per la governance democratica e la stabilità delle istituzioni, è assolutamente intollerabile quando non ha neppure la legittimità derivante dalla giurisdizione.

La CPI, quindi, non solo agisce fuori dai suoi confini giuridici, ma lo fa in un momento in cui qualsiasi tentativo di revisionare, mettendole in dubbio, le azioni correnti col senno di poi è inevitabilmente influenzato dalle dinamiche del conflitto in corso. Questo approccio non solo mina la credibilità della Corte, ma rischia di compromettere la legittimità della giustizia internazionale.

La reazione di Israele

L’ufficio del primo ministro ha dichiarato in una nota che la “decisione antisemita” della CPI di emettere mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant è equivalente ad un “processo di Dreyfus moderno”.

Sostenendo che la decisione della Corte non impedirà a Israele di proteggere i suoi cittadini, il governo israeliano ha respinto “con disgusto” le accuse “false” della Corte, affermando che derivano dagli sforzi del procuratore generale Khan per “salvarsi la pelle dalle gravi accuse di molestie sessuali” e dalle convinzioni di “giudici parziali mossi dall’odio antisemita verso Israele”. Recentemente, la CPI ha annunciato che avvierà un’inchiesta indipendente sulle accuse di molestie sessuali contro Khan.

La Casa Bianca ha “respinto con fermezza” la decisione della Corte e fa sapere di rimanere “profondamente preoccupata per la fretta del procuratore nel richiedere i mandati di arresto e per gli inquietanti errori procedurali che hanno portato a questa decisione”.

Doppio standard

La CPI ritiene di poter esercitare la propria giurisdizione su uno Stato democratico, Israele, ignorando il lancio di razzi contro civili innocenti o l’utilizzo di bambini come scudi umani, da parte delle organizzazioni del terrorismo islamico. Le azioni della CPI sembrano più una recita in un tribunale politicizzato che una ricerca di giustizia.

I mandati selettivi riflettono non un’istituzione imparziale, ma un tribunale ideologico. Israele continuerà a difendersi da chi confonde la legge con una bandiera politica, rimanendo fermo nella sua legittima autodifesa. La giustizia non ha bisogno solo di un giudice, ma anche di una coscienza chiara.