Esteri

La leva degli ostaggi e la rete per “legare le mani” a Israele

Il duplice approccio del Team Biden: sostegno in pubblico, pressioni in privato. Ma così fa il gioco di Iran e Qatar e mina la deterrenza israeliana e americana

Biden Netanyahu
  • Dagli Usa 100 milioni di dollari di aiuti: sulla “parola” di Hamas
  • Le pressioni per ritardare l’operazione di terra israeliana
  • Basi Usa sotto attacco, missili dagli Houthi, ma ancora nessuna risposta da Washington
  • Il no all’escalation va perseguito con la deterrenza nei confronti dell’asse Iran-Qatar, non permettendogli di far leva sulla nostra umanità e sulle nostre paure

Alla luce degli sviluppi delle ultime ore è il caso di chiedersi quale attore stia esercitando la deterrenza più efficacemente, se Stati Uniti e Israele nei confronti dei nemici di quest’ultimo, o se l’Iran nei confronti dei primi due. Mettiamo quindi in fila gli ultimi eventi.

La leva degli ostaggi

Venerdì sera come noto Hamas ha rilasciato due ostaggi, due cittadine americane. Bene, benissimo. Ovviamente, occorre fare il possibile per salvare le vite degli ostaggi. A condizione però di non permettere ad Hamas – che Biden e Netanyahu in persona hanno paragonato niente meno che all’ISIS – e ai suoi sponsor, Iran e Qatar, di far leva sugli ostaggi per ritardare, limitare o porre fine alla risposta militare israeliana.

Dopo il massacro commesso, Hamas sta cercando di sfuggire alla punizione, di cavarsela intavolando un negoziato sugli ostaggi. Intermediario chiave è il Qatar, che finanzia e ospita la leadership di Hamas e che appare come il piromane che prima appicca l’incendio e poi si fa vedere mentre aiuta a spegnerlo. Suo vero scopo è aiutare Hamas ad usare la leva degli ostaggi per evitare l’eliminazione del gruppo terroristico a Gaza.

Ecco quindi il segnale che Hamas ha voluto mandare rilasciando i due ostaggi. Insinuare la (falsa) speranza, nei governi ma anche nelle opinioni pubbliche di Usa, Ue e Israele, che sia possibile salvare gli ostaggi, nel tentativo di ritardare il più possibile l’operazione di terra israeliana, aumentare la pressione sul governo Netanyahu, già indebolito dall’attacco e contestato, e magari far venire meno gradualmente il sostegno occidentale a Israele. Vedete, Hamas vuole negoziare, evitare una escalation che nessuno vuole, solo gli israeliani cattivi vogliono la guerra sacrificando persino gli ostaggi. Un ricatto morale diabolico.

Duplice approccio

Purtroppo i segnali indicano che questa operazione, che potremmo chiamare “legare le mani” a Israele, sia in pieno svolgimento. Grazie al ruolo interessato del Qatar, ma con la collaborazione decisiva dell’amministrazione Biden, che sta adottando il solito duplice approccio: in pubblico si schiera fermamente per la difesa di Israele, offre il suo sostegno militare, e ci mancherebbe, mentre dietro le quinte esercita pressioni per trattenerlo, per condizionarne la risposta militare in modo da favorire una de-escalation ed evitare che gli Usa siano coinvolti in una guerra regionale, ma a scapito della deterrenza e della sicurezza di Israele.

L’errore capitale dell’amministrazione Biden è continuare a perseguire, anche dopo l’attacco del 7 ottobre, una politica di appeasement nei confronti dei due maggiori sponsor di Hamas, Iran e Qatar, minando la deterrenza sia israeliana che americana.

Le pressioni Usa su Israele

Washington avrebbe chiesto a Israele di attendere a lanciare l’operazione di terra fino a quando non sarà esaurita del tutto la possibilità di rilasciare gli ostaggi. Mentre venivano liberati i primi due, venerdì sera, Bloomberg riportava che “i governi Usa e Ue hanno esercitato pressioni su Israele per ritardare l’invasione di terra di Gaza in modo da guadagnare tempo per i colloqui segreti in corso via Qatar per ottenere il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas“.

Inizialmente il governo israeliano avrebbe resistito, ma poi ha dovuto cedere alle pressioni di Washington, ritardando l’avvio dell’operazione e ricalibrando i suoi piani, nonostante al momento non sia nemmeno sul tavolo il rilascio di ostaggi israeliani, ma solo stranieri.

Ma gli ostaggi nelle mani di Hamas sono oltre 200. La prospettiva è uno stillicidio, con promesse di rilascio in piccoli gruppi. Un rappresentante di Hamas a Beirut ha riferito ieri all’Ansa che sono “in corso contatti” con i mediatori arabi, Qatar ed Egitto, per il rilascio di altri ostaggi civili. Anche il Qatar ha agitato la carota: “molto presto”, ma ovviamente non può dire quando: “Non possiamo promettervi domani o dopodomani ma siamo sulla strada”. E intanto il tempo passa.

Secondo il New York Times, l’amministrazione Biden sarebbe riuscita anche a dissuadere Israele da un attacco preventivo, che era praticamente pronto, contro Hezbollah in Libano. E un altro modo per ritardare ancora l’avvio dell’operazione di terra è chiedere a Israele di avere prima un piano per la Striscia di Gaza nel dopo-Hamas.

La debolezza di Israele

Israele non può fare altrimenti, per la debolezza del governo Netanyahu e per la sua dipendenza dagli aiuti militari Usa. Così il ministro della difesa Yoav Gallant ha spiegato, ad una Commissione della Knesset, la decisione del governo di dare il via libera agli aiuti a Gaza prima del rilascio di tutti gli ostaggi: “Gli americani hanno insistito e noi non siamo nelle condizioni di rifiutarci. Facciamo affidamento su di loro per aerei e attrezzature militari. Cosa dovremmo fare? Dirgli di no?”

I 100 milioni a Gaza

Il rilascio dei due ostaggi infatti è stato seguito a stretto giro dall’ingresso a Gaza dei primi aiuti umanitari, che erano bloccati da giorni. Sabato mattina, sono entrati dal valico di Rafah venti camion di aiuti – cibo acqua e forniture mediche, ma non carburante – e due giorni prima il presidente Biden aveva assicurato un finanziamento di 100 milioni di dollari per assistenza umanitaria destinata a Gaza e Cisgiordania. Chiaro che si tratta di un pacchetto complessivo ostaggi-aiuti.

Ovviamente, il rischio che questi aiuti non vadano ai civili, ma ai terroristi, è ben presente, avendo Hamas ancora il totale controllo sulla Striscia. “Avremo meccanismi in atto affinché questi aiuti raggiungano chi ne ha bisogno, non Hamas o gruppi terroristici”, assicurava lo stesso Biden, aggiungendo: “Se Hamas devia o ruba gli aiuti, dimostrerà ancora una volta che non ha alcun interesse per il benessere del popolo palestinese”, ammettendo implicitamente che questa possibilità esiste eccome.

Sulla parola di Hamas

Significativo come ha risposto Jon Finer, vice del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, alle domande della Cnn: come faranno gli Stati Uniti ad assicurarsi che gli aiuti non finiranno nelle mani di Hamas? “Garantendo un’intesa tra i combattenti di Hamas che controllano il checkpoint dall’altra parte del confine, i governi di Israele e di Egitto”. Ma come possiamo credere alla parola di Hamas? “Crediamo ci sia un’intesa ora tra tutti gli attori che controllano il valico di Rafah”.

Insomma, l’unica garanzia è la parola di Hamas. In teoria, l’Egitto avrebbe modo di controllare cosa entra a Gaza – ma difficilmente ogni singolo pallet dei convogli – ma che poi gli aiuti una volta dentro vadano ai civili e non ai combattenti, beh su questo non c’è altro che la parola di Hamas. Come ha osservato l’ex segretario di Stato Mike Pompeo: “Parliamoci chiaro: questi aiuti vengono consegnati ad Hamas”.

Percezione di debolezza

Ma il problema non è tanto il passaggio di aiuti umanitari, quanto il possibile sabotaggio del sostegno all’operazione di terra per sradicare Hamas. Invece di permettere ad Hamas e ai suoi sponsor, Iran e Qatar, di far leva sulla nostra umanità e sulla nostra paura di una escalation, di fatto trattando con un gruppo terroristico assimilato all’ISIS, gli Usa dovrebbero esercitare la loro deterrenza nei confronti di Doha e Teheran, ritenendole direttamente responsabili per il massacro del 7 ottobre e, tra gli altri, di 30 americani.

Teheran percepisce giustamente la trattativa segreta sugli ostaggi, l’operazione israeliana messa in stand-by e la mancanza di una risposta militare Usa agli attacchi delle sue milizie, come debolezza e paura di un’escalation, il che è esattamente il modo per incoraggiare una escalation iraniana. Ed è ciò che gradualmente Teheran sta facendo, intensificando gli attacchi di Hezbollah contro Israele e gli attacchi dei suoi proxies contro le basi Usa in Siria e in Iraq.

“Biden parla, ma agirà?”, si chiedeva ieri il Wall Street Journal nel suo primo editoriale, osservando che “i proxies dell’Iran stanno sparando agli americani senza una risposta da parte degli Stati Uniti”.

L’attacco degli Houthi

Secondo funzionari Usa citati dalla Cnn l’attacco sventato dalla USS Carney nel Mar Rosso giovedì notte sarebbe stato molto più significativo di quanto ammesso in un primo momento dal Pentagono. La USS Carney avrebbe intercettato ben 4 missili da crociera e 15 droni lanciati dagli Houthi, nel corso di un attacco durato ben 9 ore. E secondo qualcuno l’obiettivo dell’attacco non era Israele, come ipotizzato dal Pentagono, ma proprio la nave militare Usa. Se Washington ha voluto ridimensionare l’accaduto – nei numeri, nei tempi e negli obiettivi – per non rischiare di trovarsi nella condizione di dover reagire, allora è preoccupante.

La deterrenza più efficace

Questo significa che la linea rossa tracciata dalla Casa Bianca, il monito ad attori statuali e non statuali a non intervenire nella guerra tra Israele e Hamas, è stata gravemente sfidata e stressata e che la deterrenza iraniana sta funzionando di più di quella Usa.

Dunque, per tornare alla domanda iniziale: di chi è la deterrenza più efficace? Se Washington permette ad Hamas, Qatar e Iran di continuare a condurre questo gioco, anziché punirli, se il prezzo per evitare l’escalation è frenare e limitare la risposta israeliana, allora è probabile che Hamas sopravvivrà e l’Iran ne uscirà più forte e pericoloso di prima. E ciò indebolirà consistentemente la deterrenza americana, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo. Pechino osserva e prende appunti.

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