Esteri

L’Ue vuole contribuire al contenimento di Pechino nell’Indo-Pacifico. Ma come?

Il proposito è di rafforzare la presenza, anche militare, nella regione. Ma Bruxelles non ha una sua flotta e una politica comune

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Per ora si tratta solo di una dichiarazione d’intenti, ma sembra che l’Unione europea punti a rafforzare la sua presenza, anche militare, nel delicato scacchiere dell’Indo-Pacifico. Il proposito è difensivo e non offensivo, e Bruxelles vorrebbe in questo modo contribuire a frenare l’espansionismo cinese nell’area, fornendo anche supporto alle nazioni più piccole che con Pechino hanno contenziosi territoriali.

Con un tweet la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha cercato di chiarire la questione:

“Vogliamo un Indo-Pacifico sereno e prospero. Deve essere libero, aperto e interconnesso, con un’architettura di sicurezza basata su regole che serva tutti gli interessi. Continueremo a incoraggiare Pechino a fare la sua parte in una regione indo-pacifica in pace e prospera”.

Bruxelles non ha una flotta

Belle parole, ma sorgono a questo punto dei dubbi. La presenza Ue dovrebbe essere navale, ma è lecito porsi qualche domanda perché non esiste una flotta dell’Unione in quanto tale. Ci sono invece quelle delle singole nazioni, che non rispondono a un comando unificato. Inoltre sono tuttora gli inglesi a possedere la flotta più potente, seguiti dai francesi. E resta il problema di capire come Londra possa essere coinvolta dopo aver attuato la Brexit.

La Ue ha tutte le ragioni di preoccuparsi dell’Indo-Pacifico. Si tratta di un’area strategica attraversata dalle più importanti rotte commerciali del mondo, e i Paesi europei hanno bisogno che sia libera affinché i suoi interessi commerciali non vengano danneggiati.

Tutti sanno, però, che l’Unione non è mai riuscita ad elaborare una vera politica estera comune, per non parlare di una comune politica della difesa che, allo stato attuale, non esiste.

Significa forse che Bruxelles intende ora muoversi in tale direzione? Sarebbe una notizia interessante, ma nella crisi ucraina abbiamo visto i vari Paesi muoversi in ordine sparso. Alcuni vicini a Washington, altri in posizione mediana, e altri ancora alla ricerca di una difficile autonomia.

Diverso sarebbe il discorso se a prendere l’iniziativa fosse la Nato, ma i suoi massimi rappresentanti non si sono ancora espressi al riguardo. Anche se il mese scorso si sono tenuti a Bruxelles colloqui tra rappresentanti della Ue e la vicesegretaria di Stato americana Wendy Sherman, durante i quali entrambe le parti hanno espresso un forte interesse a cooperare nell’Indo-Pacifico.

Il nodo dei fondi

Tuttavia, come sempre accade in quest’ultimo periodo, i vari parlamenti nazionali – incluso quello italiano – non hanno ricevuto informazioni precise al riguardo. Questo preoccupa non poco. L’Unione dovrà già affrontare spese ingenti per la ricostruzione dell’Ucraina (ammesso che la guerra finisca in tempi ragionevolmente brevi). Come reperire, quindi, i fondi per dislocare parti delle flotte nazionali in un settore geografico così lontano?

E c’è pure il problema di capire come reagirà la Repubblica Popolare che, oltre a tenere sotto pressione costante Taiwan, ha creato proprio in quei mari una grande quantità di isole artificiali trasferendovi aerei e navi da guerra.

Un bel rebus, insomma. È auspicabile che nel Parlamento europeo, e in quelli nazionali, venga presto discussa la questione in un momento di grave crisi economica, e mentre è ancora incerto il destino dei fondi attribuiti al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

La base cinese in Cambogia

Nel frattempo la Repubblica Popolare continua senza soste la sua politica di rafforzamento militare, e soprattutto navale, in tutto il mondo. Giunge infatti notizia che Pechino sta ristrutturando la base di Ream in Cambogia, che è un Paese satellite di Pechino sin dai tempi dei Khmer Rossi.

Quella di Ream è in realtà una vecchia installazione costruita dagli americani ai tempi della guerra del Vietnam, e poi trascurata dalla debole Marina militare di Phnom Penh. I cinesi ne hanno tuttavia intuito le potenzialità, decidendo di ammodernarla per renderla uno scalo adatto all’attracco delle sue navi da guerra.

Occorre rammentare, a tale proposito, che già ora la flotta cinese supera in quanto a numeri quella americana. Anche se esiste ancora uno squilibrio tecnologico notevole tra le due flotte, nel senso che le navi Usa sono più avanzate.

Le Isole Salomone

Attualmente la Repubblica Popolare possiede una sola base navale all’estero – quella di Gibuti in Africa – ed è inoltre in trattativa con il governo delle Isole Salomone, nel Pacifico meridionale, per installare in loco un’altra base.

Si collocherebbe a soli due mila chilometri dalle coste australiane, e tale fatto ha subito causato proteste da parte di Canberra, che è la maggiore potenza regionale dell’area. Ma sono intervenute pure Washington e Londra, che nell’area suddetta hanno grandi interessi.

Comunque la base cambogiana di Ream avrebbe una funzione strategica, aggiungendosi alla catena di isolotti nel Mar Cinese Meridionale – alcuni artificiali – che Pechino ha occupato pur essendo essi collocati in acque internazionali.

Le difficoltà di Pechino

La strategia di Pechino è quindi chiara. Terminata la fase in cui la Cina mostrava un volto solo commerciale ed essenzialmente pacifico, ora le sue ambizioni di diventare potenza globale al pari degli Usa è sempre più evidente.

Vi sono tuttavia ostacoli notevoli. Il ministro degli esteri di Xi Jinping, Wang Yi, ha cercato di replicare con altri Stati insulari del Pacifico meridionale lo stesso accordo raggiunto con le Isole Salomone, ricevendo però una serie di rifiuti, in particolare dalle Isole Fiji alle quali Pechino teneva molto. Wang Yi è quindi tornato a Pechino con le pive nel sacco.

Molti hanno infatti capito che la Cina offre alle nazioni piccole generose sovvenzioni economiche che, tuttavia, gli Stati beneficiari non riescono a ripagare, vedendosi così costretti a cedere a Pechino il controllo di asset strategici quali porti e aeroporti. Si tratta della “trappola del debito” che ormai tutti conoscono.

Intuito il pericolo, molti cercano ora di sottrarsi all’influenza cinese e questo potrebbe essere fatale per i progetti espansivi di Pechino. Non a caso, del celebre progetto della “Nuova Via della Seta”, voluto da Xi Jinping, si parla ora molto meno di prima.

Il ruolo dell’Ue

In ogni caso è chiaro che, se l’Unione europea agisce in accordo con Usa, Regno Unito, Australia e Giappone (peraltro già molto impegnato in questo senso), può fornire un contributo importante alla strategia anti-cinese messa in atto dall’Occidente. A Bruxelles si sottolinea che la Cina comunista è ora in difficoltà. Ne consegue che un incremento della presenza commerciale e militare europea nell’Indo-Pacifico è in grado di frenare ulteriormente le mire espansionistiche della Repubblica Popolare.

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