Esteri

Puigdemont detta le condizioni, Sánchez pronto a tutto per restare al potere

Il leader indipendentista pretende l’amnistia per appoggiare il nuovo governo Sánchez, Spagna nuovamente ostaggio del nazionalismo localista

Carles Puigdemont Carles Puigdemont

L’incontro di lunedì al Parlamento europeo tra la massima rappresentante dell’estrema sinistra spagnola, Yolanda Díaz, e il leader indiscusso del secessionismo catalano, il fuggitivo Carles Puigdemont, lasciava già presagire i passi successivi in vista della riedizione di Pedro Sánchez alla Moncloa. Puntuale, il giorno dopo, è arrivata la conferma di tutti i sospetti (in realtà facili previsioni) sull’ennesimo incipiente accordo del presidente del governo in carica con i fautori della dissoluzione dello Stato.

Le condizioni di Puigdemont

Puigdemont si è presentato davanti alla stampa convocata a Bruxelles per ribadire le sue scontate esigenze: riconoscimento della legittimità del movimento indipendentista; abbandono della “via giudiziaria” nella gestione del fantomatico “processo di autodeterminazione”; amnistia immediata che comprenda ogni fattispecie politico-penale dal 2014; creazione di un meccanismo di mediazione e supervisione internazionale nelle trattative tra Governo e Generalitat su un futuro referendum di autodeterminazione.

Un vero e proprio programma di disconnessione della regione dal resto del territorio, una violazione flagrante dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, una circonvenzione della Costituzione spagnola che non prevede né l’amnistia né tantomeno la possibilità di una dichiarazione di indipendenza.

Se accettate e portate a compimento, queste condizioni significherebbero la resa dello Stato di diritto nei confronti del ricatto secessionista del giacobinismo catalano (in questo caso trasversale a destra e sinistra, visto che Esquerra Republicana condivide gli obiettivi finali degli uomini di Puigdemont).

L’indipendentismo guarda a sinistra

Formalmente il leader di Junts si è rivolto a entrambi i candidati alla presidenza, il popolare Feijó che tenterà per primo la sorte al Congreso e il socialista Sánchez, che al momento è l’unico ad avere possibilità concrete di riunire la maggioranza necessaria, dopo la risicata vittoria elettorale del centrodestra lo scorso luglio.

Ma è ovvio che l’indipendentismo guarda a sinistra, avendo le porte sbarrate da tempo sul fronte opposto. Con la sinistra d’altronde ha già condiviso l’intera legislatura uscente, in cui Esquerra Republicana e perfino i simpatizzanti etarras di Bildu erano a tutti gli effetti alleati di governo di Sánchez. La lista di richieste da presentare alla Moncloa, Puigdemont la definisce “possibilità di un patto storico”, consapevole dell’importanza che una legge elettorale al limite del masochistico assegna ai suoi sette deputati.

Facendo riferimento, con una retorica del tutto simile a quella del nazionalismo basco, al concetto di “conflitto” tra Stato e autonomie – un conflitto in realtà creato e perseguito solo unilateralmente -, Puigdemont ha rispolverato i più vetusti cliché del catalanismo militante: la sentenza del 2010 del Tribunale Costituzionale che annullava per incostituzionalità diversi articoli dello Statuto catalano, l’azione penale contro i leader indipendentisti fautori del referendum illegale del 2017, l’applicazione dell’articolo 155 che sospendeva provvisoriamente le prerogative degli organi istituzionali di Barcellona, e soprattutto il richiamo alle vicende del 1714, data in cui – secondo il credo nazionalista – la Catalogna perse la propria condizione di nazione. Un falso storico clamoroso sui cui qui non abbiamo il tempo di soffermarci.

Pre-condizioni

Puigdemont ha specificato senza mezzi termini che l’amnistia e le altre condizioni dovranno essere implementate prima di sedersi al tavolo delle trattative. Nelle sue intenzioni non sarebbero quindi argomenti di discussione ma esigenze preventive.

Petizioni che, a suo dire, non violerebbero “né la Costituzione né nessun trattato europeo” (sulla perversione dello Stato di diritto e della legalità in nome di una presunta volontà/sovranità popolare che supererebbe qualsiasi previsione normativa ci eravamo soffermati lungamente in uno dei primi articoli pubblicati da Atlantico Quotidiano sull’argomento). Pretese inaccettabili, che Sánchez come al solito finirà per legittimare di fatto, negando formalmente di volerlo fare.

Strada spianata

D’altronde la strada per modificare surrettiziamente la Costituzione spagnola e rovesciare i presupposti della transizione del 1978 è stata spianata nel gennaio scorso, con l’abolizione del delitto di sedizione, derubricato a “disordini pubblici aggravati”. Un modo elegante quanto truffaldino per esonerare ex post i responsabili del referendum illegale e della dichiarazione di indipendenza fake.

Un favore politico che evidentemente ha aperto il vaso di Pandora delle concessioni ai nazionalisti. Da quell’aggiramento delle norme vigenti alle rivendicazioni attuali di Puigdemont il passo è stato brevissimo.

In mezzo, una campagna elettorale mal gestita dal Partito Popolare, che si è giocato la vittoria esitando sull’alleanza con Vox, e la terribile voglia di riconferma di Sánchez, che dopo aver liquidato di fatto la tradizione unitaria e costituzionale del Partito Socialista si appresta a farlo anche con le istituzioni dello Stato spagnolo.

Le dichiarazioni iniziali dei sanchisti sono state a dir poco sconcertanti nella loro prevedibilità: “nessuna sorpresa, Puigdemont possibilista, poco conflittuale, la via del dialogo è aperta”. Cosa non si fa per aggrapparsi al potere. L’unica speranza è che, come di consueto, la parola di Sánchez non valga la carta su cui è scritta e che, dopo l’intronizzazione (che ci sarà), il suo governo tenuto in piedi con le graffette dei fondamentalisti del localismo (catalani e baschi) si dissolva alla prima ventata di realtà.

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