Esteri

Razzismo alla rovescia: ecco i tre errori delle affirmative actions

Un postulato collettivista che annichilisce l’individuo e la responsabilità individuale. Bene ha fatto la Corte Suprema Usa a decretarne l’illegittimità

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La Corte Suprema degli Stati Uniti ha bocciato le cosiddette affirmative actions volte a riconoscere un punteggio di vantaggio alla componente razziale dei candidati all’ingresso nelle università. Si trattava, in sostanza, di assegnare più punti al candidato di colore, per esempio, rispetto a qualsiasi altro concorrente, per la semplice ragione della sua appartenenza etnica.

Le ragioni giustificatrici dell’affirmative actions sono state prevalentemente due: quella di “risarcire” minoranze o gruppi etnici, per quanto oggi numericamente consistenti, che hanno subito pesanti discriminazioni in passato, e quella di assicurare una composizione della classe dirigente americana quanto più eterogenea e pluralista possibile, onde evitare la supremazia degli wasp (white, anglosasson, protestant).

Queste politiche, tuttavia, hanno determinato gravi discriminazioni alla rovescia, a danno di coloro che, senza demeriti e senza responsabilità alcuna, si sono visti scartati solo perché appartenenti ad una classe sociale ed etnica considerata ancora adesso prevalente.

Gli errori di fondo degli affirmative actions sono almeno tre e bene ha fatto la Corte Suprema a decretarne l’illegittimità.

Nessuna colpa da espiare

Innanzitutto, un giovane bianco, anglosassone e protestante che oggi si accinge ad entrare nelle università americane non ha alcuna responsabilità per ciò che le generazioni di americani che lo hanno preceduto sul suolo statunitense hanno inflitto alle minoranze etniche. È irrazionale, illogico e contrario al senso della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali chiedere a coloro che non hanno mai sostenuto idee razziste o praticato condotte discriminatorie di “risarcire” uomini e donne di colore che oggi non subiscono più (grazie a Dio) alcuna forma di discriminazione sotto il profilo legale.

Quello della presunta colpa che gli wasp dovrebbero ancora oggi espiare è una questione cruciale nel dibattito delle affirmative actions, perché tale presa di posizione prende le mosse da un postulato collettivista che distrugge le identità e le responsabilità individuali.

Il mondo, in altri termini, non sarebbe la risultante di milioni di individui che, ciascuno con i loro meriti, si contendono l’ascesa sociale, ma sarebbe ancora oggi diviso fra gli “eredi” degli schiavisti e dei segregazionisti e gli “eredi” di coloro che hanno subito in passato inaccettabili e terribili discriminazioni.

L’eredità dei primi, secondo l’affirmative actions, dovrebbe portare ancora oggi il fardello della colpa delle generazioni precedenti perché benessere, ricchezza e prestigio sociale della “classe” bianca sarebbero il frutto di un ingiusto vantaggio accumulatosi dei decenni grazie alle discriminazioni.

Questa tesi, com’e evidente, annichilisce l’individuo e la responsabilità individuale, atteso che chiede ai nipoti di riparare le colpe dei nonni o dei trisavoli attraverso una nuova discriminazione.

Uguaglianza dei punti di partenza

L’altro presupposto delle affirmative actions, come dicevo, risiederebbe nella necessità di assicurare una composizione pluralista alla classe dirigente americane, onde evitare, ancora una volta, il predominio di sensibilità e rappresentanze mono-etniche.

Sennonché anche questa esigenza veniva soddisfatta con una discriminazione al contrario, quando sarebbe ben possibile raggiungere (o almeno tentare di perseguire) lo stesso risultato attraverso politiche sociali che dovrebbe ridurre sin dall’infanzia le difficoltà di coloro che non hanno mezzi adeguati per arrivare all’ingresso all’università con la necessaria dotazione culturale e professionale.

La riduzione delle diseguaglianze dei cosiddetti punti di partenza potrebbe (dovrebbe) iniziare, attraverso le politiche sociali, ben prima del test d’ingresso all’università, cosicché la competizione fra i vari candidati non necessiterebbe di alcuna discriminazione alla rovescia.

Sarebbe opportuno chiedersi, in ultimo, se davvero l’università può considerare oggi uno studente o una studentessa di colore che richiedono di accedere all’università come soggetti svantaggiati, a priori, e ciò necessiterebbe di una ricognizione reale di carattere sociologico e concreto che non può invece essere sostituita da una presunzione assoluta di legge qual era la politica delle affirmative actions.

Allo stesso modo verrebbe da chiedersi se davvero la classe dirigente americana registri oggi nei posti di comando ad ogni livello, federale e statale, una prevalenza o un predominio di uomini e donne di razza bianca tale da richiedere una nuova e insopportabile discriminazione.

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