Politica

Autonomia differenziata, Schlein se la prenda con l’Ulivo

Se il Pd fosse coerente, dovrebbe rinnegare la riforma ulivista del Titolo V: ma il ritorno ad uno Stato iper-centralizzato sarebbe, questo sì, autoritario

Schlein Gubbio

Nei due giorni del ritiro dei parlamentari Pd in quel di Gubbio, è emersa con chiarezza un’opposizione senza se e senza ma, da trasferire dalle Camere alle piazze, circa “l’odioso baratto” tra Fratelli d’Italia e la Lega, “il presidenzialismo per l’autonomia differenziata”, secondo le parole usate dalla segretaria Elly Schlein nell’intervista data nel secondo giorno.

Se pure vi si denuncia l’assenza da parte della maggioranza di una qualsiasi disponibilità a dialogare, si dà per scontata una condanna dell’autonomia speciale di cui all’art. 116, comma terzo della Costituzione, già implicita nell’intitolazione del ritiro “Una e indivisibile”. Sarebbe tale da accentuare le disuguaglianze territoriali fra Nord e Sud, mentre non ci può essere “riscatto per l’Italia senza il riscatto per il Sud”.

La stampella dei giuristi

È una posizione radicale, che non manca di trovare una sorprendente copertura giuridica da parte di un ex presidente della Consulta, Ugo De Siervo, che, in un’intervista a la Repubblica il 23 gennaio, considera sollevabile una questione di costituzionalità rispetto alla legge ordinaria introduttiva dell’autonomia speciale di cui all’art. 116, comma terzo Cost., battezzata come autonomia differenziata nell’intestazione del disegno di legge Calderoli.

Articolo, quest’ultimo, che avrebbe costituito solo una riforma costituzionale parziale, senza farsi carico di armonizzarla con le altre parti dell’organizzazione della Repubblica lasciate immodificate. Da qui, sembrerebbe doversene dedurre che fino a quando tali altre parti non saranno modificate di conseguenza, con la debita procedura ex art. 138 Cost., non si potrà avere alcuna autonomia differenziata, cioè… mai.

Un calcolo elettorale

Per intanto si preannuncia battaglia dura alle Camere, accompagnata da una mobilitazione delle piazze, secondo un copione che sconta la debolezza parlamentare dell’opposizione, anche se è richiesta la maggioranza assoluta per varare la legge sull’autonomia differenziata; mentre si preannuncia la richiesta di un referendum abrogativo una volta che la legge sia approvata, contando evidentemente su una contrarietà massiccia dell’opinione pubblica meridionale.

È di tutta evidenza che la posizione del Pd riflette una preoccupazione elettorale, quella per cui – essendo la competizione, secondo l’opinione comune dei sondaggisti, confinata all’interno dei due blocchi di sinistra e di destra – il Pd se la dovrà vedere coi 5 Stelle, proprio nell’area da loro più fortemente presidiata, cioè quella del sud, dove ha facile presa un meridionalismo afflitto dal complesso del Nord.

Se si tratti di un calcolo elettorale corretto, lo si vedrà ad urne aperte, ma lo si potrebbe considerare anche scontato, non senza, però, un costo del tutto evidente per chi ha vissuto la straordinaria stagione riformista inaugurata dall’Ulivo sul finire del secolo precedente.

La riforma targata Ulivo

L’art. 116, comma terzo Cost. ha un padre illustre, Massimo D’Alema, essendo presente sia alla stesura del testo elaborato dalla Commissione sulla riforma costituzionale, di cui era presidente, sia alla formulazione del progetto da lui patrocinato da presidente del Consiglio dei ministri, destinato a divenire il nuovo Titolo V, Parte II della Costituzione.

L’art. 116, comma terzo Cost., va visto nel contesto di quell’autentica rivoluzione istituzionale costituita dalla riscrittura di quel Titolo V, attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, all’insegna di una decentralizzazione amministrativa e legislativa della Repubblica, costituita, ai sensi del fondamentale art. 114 Cost., “dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.

La dirigenza della maggioranza ulivista della seconda parte del decennio ‘90 è la protagonista di questa rivoluzione, all’insegna di un “federalismo”, prima “amministrativo” con la legge 15 marzo 1997, n. 59, poi anche “legislativo”, con la l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3. Se si è parlato e si parla di “federalismo legislativo”, lo si fa con l’occhio rivolto al criterio prescelto per la ripartizione per materie delle competenze legislative, che assegna non più allo Stato ma alle regioni ordinarie quelle residuali.

Così, secondo due elenchi che si vorrebbero tassativi, sono individuate quelle riservate alla competenza esclusiva dello Stato e, rispettivamente, quelle attribuite alla competenza concorrente Stato-Regioni. Ma a chiusura, tocca comunque alla competenza legislativa delle regioni ordinarie “ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato”.

Questa la dote comune per tutte le regioni ordinarie, ma può essere arricchita proprio in forza dell’art. 116, comma terzo Cost., con la concessione di “ulteriori forme e condizioni di autonomia”, con riguardo alle materie attribuite alla competenza concorrente Stato-Regioni, nonché ad alcune di quelle riservate alla competenza esclusiva dello Stato.

Marcia indietro

Se pure non si può escludere che questa autonomia differenziata sia stata varata in vista della consultazione elettorale di inizio secolo per far concorrenza alla Lega nelle regioni del Nord, certo essa ha costituito una proposta tenuta ferma sin dalla la riforma costituzionale presieduta da D’Alema. La convinzione coltivata anche a sinistra era che tale autonomia – una volta rispettata la garanzia di prestazioni essenziali uguali su tutto il territorio nazionale – permettesse alle regioni più efficienti di sviluppare al massimo le loro potenzialità, con un ritorno positivo anche per le altre.

Quelle elezioni vennero perse dall’Ulivo, aprendo il passo al secondo Governo Berlusconi ed innescando una sorta di marcia indietro del centrosinistra, con una critica estesa all’intero impianto del nuovo Titolo V, cui è stata addebitata anche la difficoltà delle stesse regioni del nord a gestire l’epidemia Covid.

Un premierato autoritario

Certo non è stato facile per la Corte costituzionale decidere dei conflitti di attribuzione con riguardo alla ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni; lo ha fatto con un occhio di favore per lo Stato, sì che si può dare per risolto di massima quello che si era presentato come un groviglio di competenze non districabile col solo criterio delle materie.

Ora, è stato ed è l’intero Titolo V ad essere accusato di perpetuare le disuguaglianze fra Nord e Sud, perché lo stesso ampliamento delle competenze regionali, quale riservato a tutte le regioni ordinarie, ha finito di fatto per essere utilizzato assai meglio al Nord rispetto al Sud.

Se il Pd dovesse essere coerente nella sua battaglia contro l’autonomia differenziata, dovrebbe proporsi anche una modifica sostanziale dell’attuale Titolo V. Il che significherebbe lo scorporo dal suo patrimonio politico istituzionale della concezione di una Repubblica plurale, quale elaborata dalla sua dirigenza dell’ultimo decennio ‘90. Che cosa resterebbe? Almeno a prima vista solo un ritorno ad uno Stato iper-centralizzato, questo sì in piena sintonia con un premierato autoritario.

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