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L’educazione alla sconfitta che famiglia e scuola non sanno più impartire

Il ruolo fondamentale di madri e insegnanti che accompagnano la crescita emotiva dei ragazzi svilito dalla crisi cumulativa della famiglia e della scuola

Giulia Cecchettin filippo Turetta

È una responsabilità precisa dell’opposizione quella di utilizzare parole facili, così da essere assunte in chiave di protesta condivisibile da larghe masse – con in funzione di avanguardia le ultime e ultimissime generazioni, ma private della loro significanza storica – come fascista, populista, famiglia patriarcale.

Famiglia patriarcale

Quest’ultima ormai estinta nel nostro Paese, in quanto tipizzata dall’essere composta da più generazioni, composta dalla coppia primigenia, coi figli, i generi e le nuore, nonché gli stessi nipoti, con tutto il potere economico e sociale concentrato nel pater familias, esemplarmente rappresentata dalla famiglia romana di epoca repubblicana, estesa anche ai liberti, gli schiavi liberati.

Ma era possibile ritrovarla almeno fino alla metà del secolo scorso nella famiglia mezzadrile, come ebbi modo di osservare da bambino nella tenuta di mia nonna, dove, peraltro, la moglie del capo famiglia, la bolognese zdora contava moltissimo.

Famiglia naturale

È del tutto risalente l’affermarsi al posto di quella patriarcale della famiglia nucleare, formata da una coppia maschio-femmina e dai figli, legata dal matrimonio, la stessa considerata “naturale” dalla nostra Costituzione, perché ritenuta in grado di assicurare la finalità sociale fondamentale della riproduzione e della educazione della prole.

La profonda crisi della famiglia “naturale”, a cominciare dalla diffusione di coppie conviventi senza alcun vincolo matrimoniale, ha dato luogo ad una quantità di combinazioni, etero ed omosessuale, rappresentata nella omnicomprensiva espressione delle “famiglie arcobaleno”. Una crisi questa che ha trovato la sua causa principale nella perdita fattuale e giuridica della tradizionale legittimazione del maschio della coppia come protagonista principale della vita famigliare, con la condanna della femmina ad una posizione subordinata, o addirittura succube.

La parità giuridica raggiunta non ha peraltro trovato una diffusa rispondenza, per la resistenza del maschio in quanto tale a rinunciare alla sua supremazia fisica e psicologica, continuando ad avvalersi dell’essere spesso la fonte prevalente del reddito e dell’accreditamento sociale.

Una concezione proprietaria

Più in profondità gioca un fattore che ben oltre quella di coppia sposata o convivente, riguarda ogni relazione fra uomo e donna, con la presenza di una concezione proprietaria del maschio per cui qualsiasi tentativo di emancipazione rispetto alla relazione posto in essere della femmina viene vissuto come una espropriazione inaccettabile, provocando una frustrazione che spesso trova sbocco nella violenza fisica condotta fino all’estremo del femminicidio.

Il caso di Giulia, uccisa con inaudita crudeltà, ha messo in evidenza proprio questo aspetto di espropriazione dell’ex-fidanzato, condotto a pensare che se non potesse essere sua, non doveva essere di nessun altro, secondo una concezione proprietaria.

Ma perché, mi chiedo, quel che al tempo mio veniva considerato un passaggio inevitabile del percorso di crescita, il rifiuto di una coetanea di continuare a stare insieme, dovrebbe oggi diventare non assorbibile se non con un efferato omicidio?

Personalmente credo che di norma sia ancora ritenuto un passaggio inevitabile, come tale esente da ogni sentimento di possesso esclusivo, ma certo assai meno di una volta, sì da doversene cercare le cause. Su una causa principale se pur non esclusiva sembra esserci concordia, cioè la crescente incapacità delle ultime generazioni di elaborare le sconfitte, che nel caso dei maschi porta a reagire a quelle sentimentali in maniera violenta.

Il ruolo di madri e insegnanti

Il che chiama in causa l’educazione ricevuta in famiglia e nella scuola, ma qui senza dar debito conto dei principali protagonisti, che sono in tutto o in parte prevalente donne, madri e insegnanti. Non si tratta di partecipare al gioco delle colpevolizzazioni, spostandole dagli uomini alle donne, perché la violenza è tutta maschile, se pur assai più contenuta di quella iper-gonfiata dai mass media in presenza di eventi estremi. Si tratta di tener presente l’intera scena in cui matura la formazione dei maschi, senza di che la ricerca di una politica anti-violenza riuscirebbe monca.

Mi vien da ricordare uno scambio di battute tra il sociologo Francesco Alberoni e il sottoscritto, lui direttore ed io insegnante nell’Istituto superiore di scienze sociali di Trento: lui mi disse che le donne erano rovinate dall’avere figli maschi, ed io gli opposi che i figli maschi erano rovinati dall’avere delle madri femmine. Botta e risposta che comunque evidenziava quel ruolo fondamentale svolto dalle madri nella formazione della visione dei figli maschi su quel che sarà il rapporto con l’altro sesso. Ruolo accreditato quasi universalmente da ricerche empiriche e costruzioni teoriche.

Ma non è tutto, perché una volta entrato nel circuito scuola, i maschi si trovano ad avere una larghissima maggioranza di docenti donne, senza né saperlo né volerlo, confermeranno o smentiranno la visione acquisita nella prima infanzia, senza che una ulteriore ora settimanale dedicata alla affettività possa contare molto.

Crisi della famiglia e della scuola

C’è quindi tutto un universo femminile che accompagna la crescita emotiva dei maschi, che, peraltro non si vuole affatto colpevolizzare, in quanto la crisi cumulativa della famiglia e della scuola rimanda all’affermarsi di una società “tollerante”, che vede genitori e insegnanti privati di qualsiasi autorità giuridica e autorevolezza, con una qual sorta di acquiescenza crescente, sì da trovare costoso in tutti i sensi pronunciare dei “no”.

Si cresce senza essere capaci si direbbe in linguaggio pugilistico di prendere ed assorbire i colpi, con la conseguenza che al primo gancio si finisce al tappeto.

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