Politica

Proteste per Ramy e coperture politiche, esempio del nichilismo woke

Un castello di concetti e di accuse di contenuto essenzialmente negativo che portano a distruggere ogni criterio di valore e giudizio basato sul comportamento concreto dei singoli

Ramy Sala © STILLFX e BreizAtao tramite Canva.com

Davanti alle recenti manifestazioni violente seguite all’incidente dove ha purtroppo perso la vita il giovane di origine egiziana Ramy Elgaml, come davanti a molte altre situazioni che coinvolgono i rapporti tra gli italiani e gli immigrati di origine africana o mediorientale, la cosa forse più paradossale e sconcertante è il fatto che gli attivisti più critici, ma forse si dovrebbe dire più esagitati, i protagonisti delle manifestazioni più devastanti, non sono come verrebbe subito da pensare gli immigrati “vittime” del sistema (i quali casomai seguono a ruota), ma sono rappresentati da cittadini italiani, non di rado appartenenti alle classi medio alte e quindi decisamente benestanti e perfettamente inseriti in quel mondo che tanto aspramente criticano.

A questo si aggiunge (fatto altrettanto sorprendente e sconcertante) che le principali dichiarazioni se non di appoggio esplicito a tali manifestazioni, certamente di comprensione (tipo “sono solo ragazzi”, detto anche di attivisti ultraquarantenni) per i fini dei manifestanti, e/o di condanna, più o meno esplicita per l’operato dei rappresentanti delle istituzioni (“le forze dell’ordine non devono agire così”) provengono non da persone emarginate e in lotta esistenziale con il sistema, ma da soggetti perfettamente integrati nell’élite culturale del nostro Paese, siano essi politici, opinionisti, alti funzionari, artisti e persino leaders religiosi.

L’oicofobia

La cosa ovviamente non riguarda solo il nostro Paese, ma coinvolge tutta la cultura occidentale che sembra trovare al suo interno il proprio peggiore nemico. Per definire questo male, spirituale prima ancora che culturale il filosofo britannico Roger Scruton (1944 – 2020) ha coniato come è noto un nuovo termine: oicofobia, che sta a indicare il sentimento di condanna e quasi di disprezzo per tutto ciò che rappresenta la propria tradizione e i valori della propria patria e della propria civiltà.

Negli ultimi tempi per fortuna l’oicofobia, come molti altri dogmi della cultura woke, sulla base del loro sempre più evidente fallimento negli Stati Uniti d’America, Paese guida (nel bene e nel male) della civiltà occidentale, sta iniziando a dimostrare tutta la propria inconsistenza, la propria “vanità”, come dimostrano anche da noi le molte prese di posizione di condanna delle manifestazioni descritte nonché le affermazioni anche ufficiali, da parte sia governativa che giudiziaria di approvazione dell’operato delle istituzioni e dei loro rappresentanti.

Proprio per questo però può essere utile tornare brevemente ad esaminare alcuni dei principi fondamentali dell’ideologia woke, i quali sono in gran parte simili a quelli propri dei totalitarismi dello scorso secolo, ed accennare agli effetti negativi che essa ha prodotto e che potrà ancora produrre laddove continuerà ad essere adottata dalle istituzioni (e la probabilità di ciò è reale nei Paesi e nelle strutture dell’Unione europea) non solo a carico dei tanto disprezzati occidentali ma anche nei confronti delle persone di origine e cultura diversa che a parole si vorrebbero difendere.

Il perfettismo

L’oicofobia ha in comune con le visioni del mondo totalitarie del XX secolo (con il comunismo, ma anche sia pure in modo diverso con il nazionalsocialismo) la concezione “perfettista” della realtà, dell’uomo e della storia, nel senso che si ritiene che il mondo ideale, senza guerre, senza ingiustizie, dove tutti gli esseri umani sono egualmente felici e vivono in armonia, dove “ognuno dà secondo le proprie capacità e riceve secondo il proprio bisogno” per dirla con le parole di Karl Marx (1818 – 1883), sia possibile e realizzabile su questa terra e che la sua realizzazione sia solo questione di volontà.

Si tratta di una visione astratta della realtà nella quale i desideri e gli ideali (più meno nobili) si sposano ad un sentimento di onnipotenza che dimentica i limiti propri degli esseri umani, i difetti e le malvagità che condizionano inevitabilmente ogni individuo e ogni società, dimentica quello che la tradizione cristiana occidentale, sulla scia soprattutto di Sant’Agostino (354 – 430) ha per secoli chiamato peccato originale.

Di conseguenza, coloro che in tale visione del mondo si riconoscono non tengono conto delle debolezze della natura umana, altrui e propria, e si compiacciono (lo si vede in maniera chiara in certi atteggiamenti impettiti degli attivisti/e quando rilasciano interviste in favore di telecamere) di rivestirsi dei panni degli angeli giustizieri che combattono senza se e senza ma quelle che loro ritengono essere le forze del male, compresa l’imperfetta giustizia umana.

È sempre utile ricordare (non lo si fa mai abbastanza) che questo atteggiamento di “perfettismo” ha portato i regimi totalitari, instaurati per costruire il mondo ideale e per realizzare la giustizia e la pace, a compiere i più gravi crimini in nome delle migliori intenzioni.

La via empirica

Ciò invece di seguire la strada empirica per migliorare il mondo e la società, quella che da sempre ha rappresentato la via maestra del liberalismo occidentale, fondato sull’eredità dei valori cristiani, la strada percorsa da chi giudica in concreto e senza idee preconcette sia le scelte dei politici sia quelle delle autorità pubbliche chiedendosi in modo umano e basato sul buon senso, quello a cui si rifaceva già Adam Smith (1723 – 1790), studioso di morale prima ancora che fondatore del pensiero economico moderno, se tali scelte avrebbero potuto essere diverse e migliori, o se invece erano le uniche possibili.

Una strada empirica che non ha reso perfetto il mondo delle democrazie occidentali, ma lo ha molto più civile (in termini di libertà e di benessere) rispetto a tutte le altre società umane.

Marxismo vs woke

Una fondamentale differenza esiste però tra il perfettismo marxista e quello woke. Il marxismo aveva una visione evolutiva della storia, derivante dalla filosofia hegeliana fatta propria da Marx, e riconosceva il ruolo positivo della società capitalista, sia pure come tappa intermedia da superare “dialetticamente” attraverso la sua “negazione”, cioè attraverso la sua trasformazione, in vista di un mondo perfetto ben definito, prima quello della dittatura del proletariato e poi quello della società senza classi, ritenuta il paradiso (che in realtà si rivelò un inferno) dell’armonia tra gli uomini.

Nulla di tutto questo nella cultura woke, che si ferma invece alla pura negazione: in effetti nessuno (studioso o attivista che sia) tra coloro che in essa si riconosco ha mai delineato in cosa consisterebbe il mondo perfetto che porrebbe fine alla malvagità e alle ingiustizie del presente, se non usando termini generici, tanto astratti e nobili, quanto privi di valore concreto e utilizzabili per gli usi più bassi.

Di conseguenza, in nome della pace, dell’inclusione, dell’eguaglianza, la cultura woke ha costruito un castello di concetti e di accuse di contenuto essenzialmente negativo, un contenuto sostanzialmente “nichilista”, usando termini quali “razzismo”, “maschilismo”, “omofobia”, “genocidio” ecc. non per indicare il risultato di valutazioni concrete a posteriori basate sui fatti e su ragionamenti empirici, ma per portare avanti preconcetti che servono, prima ancora di avere piena consapevolezza di quanto accaduto (l’esempio dell’incidente di Milano è tipico), a dare la colpa a chi rappresenta il “male” a priori.

Preconcetti che servono, se vogliamo a trovare il capro espiatorio (secondo questa aberrante concezione) del fatto che il mondo è imperfetto, capro espiatorio rappresentato dalle istituzioni e dai loro rappresentanti, certamente criticabili anche duramente quando la critica è empiricamente fondata, ma ai quali si fa grave torto se li si condanna a priori andando quasi alla ricerca spasmodica di qualche minimo indizio e di qualche minimo difetto nel loro comportamento che possa confermare una verità già prestabilita perché conforme alla visione perfettista “in negativo” della società.

Il nichilismo woke

Questo atteggiamento “nichilista”, cioè negativo a priori, negativo a prescindere da ogni prova contraria (basta un poco di abilità dialettica esibita sui mass media e/o sui social, e grazie alla mentalità superficiale che oggi è propria di molte persone si può sempre trovare qualche modo accattivante per negare l’evidenza) verso tutti coloro che fanno parte delle istituzioni occidentali, e maggior ragione verso coloro che ne affermano il valore e la superiorità (o la minore imperfezione) rispetto alle altre esperienze concrete proprie di altre civiltà, questo atteggiamento porta a distruggere ogni criterio di valore e di giudizio basato sul comportamento concreto dei singoli.

Tutto ciò si nasconde spesso dietro posizioni in apparenza nobili, ma di fatto devastanti, come l’attribuire tutte le colpe di un crimine personale alla società (ovviamente a quella occidentale) o come il rifiuto di giudicare chi compie il male, cosa ben diversa dal divieto evangelico (Matteo, 7,1 e Luca, 6,37) che impone di non porsi al posto di Dio, giudice ultimo dell’animo umano, ma non vieta ed anzi richiede di giudicare dal punto di vista “terreno” le azioni del prossimo prendendosi la responsabilità delle proprie idee (si pensi ad esempio al “non date le perle ai porci” che segue di poco il passo citato: v. Matteo, 7,6)

Rifiuto di giudicare che si traduce poi paradossalmente nel condannare chi il male lo giudica e/o lo affronta, cosicché spesso chi viola la legge è rispettato mentre la sua vittima viene condannata perché non accetta di subire un’ingiustizia.

Il fallimento del vittimismo

Un’ultima annotazione: la peggiore aberrazione di questo atteggiamento ispirato a nobili principi, ma che si traduce solo in giudizi negativi è che esso danneggia anche quelle minoranze che vorrebbe tutelare: ad esempio come si potranno mai integrare le frange più estreme e più culturalmente chiuse nelle loro ideologie tribali e/o integraliste degli immigrati, compresi i giovani di seconda generazione, se si continua a ripetere loro che i cittadini italiani e gli stessi rappresentanti delle autorità pubbliche sono razzisti e violenti?

Quale sia la via da seguire per l’integrazione e per il miglioramento delle condizioni di vita delle minoranze ce lo possono forse suggerire le minoranze stesse. Sui pensi alle recenti elezioni americane: qualche commentatore ha definito la vittoria del Partito Repubblicano e di Donald Trump come una vittoria “del suprematismo bianco”: nulla di più sbagliato, perché a votare repubblicano (lo dimostrano i dati) sono state proprio le minoranze, compresi gli immigrati regolari.

Questo perché, ad onta della diversità delle culture, probabilmente (e per fortuna) gli esseri umani anche se provenienti da civiltà diverse preferiscono essere liberi di avere rapporti tra loro con il solo vincolo del rispetto di leggi valide per tutti piuttosto che essere alle dipendenze di chi cala loro dall’alto la propria “solidarietà” in negativo, magari scusando i loro illeciti, ma senza offrire alcuna valida prospettiva di miglioramento.

Responsabilità individuale

Così, chiudiamo con lo stesso paradosso da cui abbiamo preso le mosse (anche se rovesciato): gli attivisti che condannano i Paesi occidentali dovrebbero a volte imparare dagli stessi immigrati e in particolare da coloro che vogliono veramente integrarsi (ed è giusto ricordare a questo punto l’atteggiamento certo non facile ma coraggioso e da elogiare dei familiari del ragazzo morto nell’incidente di Milano) che la via della integrazione in un mondo imperfetto ma infinitamente migliore di quello basato sui dogmi negativi, o “nichilisti” della cultura woke, passa per la responsabilità personale e il lavoro individuale di chi si sporca le mani con la vita concreta, e non per le manifestazioni violente di chi (più o meno consapevolmente) si atteggia ad angelo giustiziere e, crogiolandosi nei propri dogmi, condanna “a prescindere” da qualsiasi motivo fondato i propri concittadini e le istituzioni del proprio Paese.