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Brexit è qui per restare: smontati stereotipi e pregiudizi, la sfida è solo all’inizio

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Smentiti quelli che “Brexit non si farà mai”, ecco l’altro volto della Brexit, quello positivo e liberale che eurolirici e disfattisti hanno preferito non vedere, perché rischia di mostrare che c’è vita al di fuori dell’Ue

Il fatidico giorno, dunque, è arrivato: finisce gennaio ed inizia Brexit. Dopo un lungo e politicamente drammatico parto il Regno Unito esce ufficialmente dall’Unione europea. È un passaggio epocale, uno stato membro che esce dal blocco. Impensabile anche a poche ore dalla chiusura delle urne il 23 giugno 2016, quando il divorzio non era stato preso davvero in considerazione nella sua totalità, ma solo come un’eventualità giudicata per lo più remota, mentre l’esito del referendum ha finito per scatenare un forte terremoto nello status quo contemporaneo, seguito da lì a pochi mesi dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ipotesi irrealizzabili per i più, nei dibattiti e nelle analisi, nel susseguirsi di opinioni e previsioni. Invece, è successo e sta succedendo.

Una lunga strada e siamo solo all’inizio – Brexit per troppo tempo e in modo errato è stata descritta come l’affermazione del populismo Oltremanica, come il trionfo delle bugie e delle paure sui dati di fatto e sulla realtà, come la costruzione di nuovi muri per isolarsi dal resto del mondo di fronte ai sempre più consistenti flussi migratori verso l’Europa. Parafrasando il poeta settecentesco irlandese Jonathan Swift, è stato commesso l’errore di scambiare le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per il sentimento della nazione. Eppure, il Regno Unito è sempre stato fondamentalmente poco incline all’europeismo e, negli ultimi anni di convivenza, la strategia di Bruxelles di dare vita ad un’unione sempre più profonda e ramificata ha riacceso quegli stessi animi che sembravano – sembravano – sopiti durante i mandati di Tony Blair e agli inizi dell’avventura da primo ministro di David Cameron, che infatti decise di scommettere in modo pesante per consacrare il suo operato garantendo che con la sua rielezione del 2015 il popolo avrebbe avuto la facoltà di esprimersi sulla permanenza nell’Ue. Poco più di un anno dopo avrebbe rassegnato le sue dimissioni.

Cos’è stata e cosa sarà questa benedetta Brexit? Se per gli strenui difensori del modello europeista resta un errore irreparabile, per i britannici è stata ed è una sonora richiesta di take back control inoltrata all’establishment, oltre che una stagione mai vissuta in precedenza di scontri e divisioni che hanno aggiunto ulteriori scosse telluriche ad un sistema impreparato, al punto da non sapere come procedere, dando fiato ai disfattisti. Termini come crisi istituzionale, emergenza nazionale e tracollo economico si sono diffusi come una pandemia, mentre la vita di tutti i giorni andava avanti. Theresa May che giocava male le carte in mano, mancando di una chiara strategia per le contrattazioni e di una solida maggioranza parlamentare; i Comuni che dettavano l’agenda e poi finivano per non trovare un accordo; l’Ue che imponeva continui diktat nella speranza che l’Articolo 50 venisse definitivamente revocato; le strade di Londra che si riempivano di manifestati pro e contro – soprattutto contro – Brexit; il luogo comune che il popolo si fosse pentito della sua scelta, unitamente all’idea che la democrazia sia sopravvalutata, quando non in grado di garantire l’esito sperato.

Tirare dritto – Proprio quando sembrava naufragare contro un bianco scoglio di Dover, Brexit è invece proseguita, suggellata dal trionfo di Boris Johnson alle elezioni di dicembre. Pragmatismo anglosassone: andiamo avanti e passiamo oltre, abbiamo perso fin troppo tempo. C’era un nuovo accordo con l’Ue (che sembrava impossibile ottenere), c’era un candidato con le idee chiare e ottusamente a favore dell’addio, quindi denigrato sulla pubblica piazza da chi era ancora fermo al 13 giugno 2016, e c’era una proposta alternativa che non avrebbe dato scampo, quella presentata dal fallimentare Jeremy Corbyn di ricominciare da capo, con un secondo referendum. L’esito è stato lampante e improvvisamente è calato il silenzio: Brexit è scomparsa dai titoli, dai talk show politici, dalle cronache marziane di chi aveva confuso le voci degli ambienti cosmopoliti londinesi per quelle dei quattro angoli del regno, accettata a malincuore dagli hooligans del fusionismo europeo, tornati però a farsi vivi a ridosso del fatidico termine.

Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo”, ha commentato dalle colonne del Messaggero domenica scorsa Romano Prodi, convinto che Londra abbia fallito nel tentativo di dividere la grande famiglia europeista. È una sua legittima convinzione, ma che il voto del 2016 avesse quell’intento è tutto da dimostrare.

Out and into the world – C’è chi piuttosto guarda a Brexit con attenzione, curiosità e interesse, senza farne una barricata ideologica – come Capezzone, Punzi e altri autori hanno tentato di fare ormai due anni e mezzo fa in “Brexit. La sfida” (Giubilei Regnani, 2017). Sono molti coloro che cercano un’alternativa alla sovrastruttura architettata nei corridoi di Bruxelles, spesso soggetta alla diarchia Berlino–Parigi. Non sono per forza contrari al concetto in sé di collaborazione economica e politica tra gli stati membri, ma si augurano che venga messo un freno alla seconda. Credono che l’identità dei Paesi sia un punto di forza e non un peso e che si possano ottenere benefici dalle relazioni con gli altri senza dover per forza adeguarsi a linee guida che non giocano a favore dei propri interessi nazionali. Confidano nel pluralismo e guardano con sospetto alle armonizzazioni forzate a colpi di direttive. Sono i connotati di quella che noi di Atlantico abbiamo definito da tempo la Brexit liberale di Johnson, il quale ora ha i numeri per mantenere la promessa e per riproporli durante le trattative che caratterizzeranno il periodo di transizione che inizierà con lo scoccare della mezzanotte.

Non è certo escluso che tra le anime di quel popolo che nel 2016 ha scelto il Leave trovino spazio quelle ancorate ad un passato che non può tornare e all’isolazionismo autarchico, ma non sono mai state maggioranza, se non per un certo sensazionalismo mediatico e la stravaganza di alcuni suoi portavoce. Tanto può bastare a chi si accontenta di soffermarsi sulla superficie e preferisce non scavare a fondo, per tirare affrettate conclusioni, ma in un momento storico come quello in atto il buon senso dovrebbe suggerire di non cadere in tentazione. Out and into the world era lo slogan degli euroscettici britannici già negli Anni Settanta, riposto in seguito in un cassetto, ma non nel dimenticatoio, quanto tra le cose da conservare perché potrebbero sempre tornare utili. La vita dopo Brexit proseguirà in modo meno tenebroso di quanto si prospettava – e qualcuno probabilmente si augurava. Non mancheranno nemmeno le scorte alimentari sugli scaffali dei supermercati. Si concretizzerà invece un’alternativa che aiuterà a considerare nuove vie e ad esplorare nuove strade, non per radere al suolo ciò che c’è quanto piuttosto per migliorare e tenere il passo dei tempi che cambiano. Sempre ammesso che se ne abbia il coraggio.

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