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Ciclone SpyGate sul governo: il nervosismo di Renzi, di Conte e dell’ambasciata Usa a Roma

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La scorsa settimana l’ex presidente del Consiglio, oggi leader di Italia Viva, Matteo Renzi ha reagito all’intervista di George Papadopoulos a La Verità annunciando una querela nei confronti dell’ex consigliere della Campagna Trump, che lo ha chiamato in causa in relazione al ruolo che il suo governo di allora avrebbe svolto nelle origini dello SpyGate:

“Penso che Matteo Renzi sia stato usato da Barack Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump e che ora Renzi rimarrà esposto e a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta, così come quella di altri esponenti di sinistra in Italia. Ritengo impossibile che un’operazione del genere si potesse svolgere senza che il Governo dell’epoca ne fosse a conoscenza. Renzi stava prendendo ordini da qualcuno ed era ben felice di obbedire”.

Tra i due nei giorni scorsi c’è stato anche uno scambio al veleno su Twitter. Parole forti, molto esplicite, ma non è la prima volta che Papadopoulos chiama in causa l’ex premier. Il 24 marzo scorso, intervistato da La Stampa, l’ex consigliere di Trump descriveva così il contesto politico in cui sarebbe scattata contro di lui la presunta trappola del professor Mifsud: “Stiamo parlando del 2016, quando Renzi era il presidente del Consiglio”. Ma allora Renzi decise di non reagire.

Stavolta però l’accusa di Papadopoulos è molto più circostanziata e, soprattutto, nel frattempo sulla politica italiana si è abbattuto un ciclone: gli incontri riservati, a Roma, tra i vertici dei servizi segreti italiani e l’Attorney General Usa William Barr e il procuratore Durham, che indagano sulle origini del Russiagate e il presunto ruolo dell’Italia. Incontri ovviamente autorizzati dal nostro presidente del Consiglio, che deve aver risposto positivamente nei mesi scorsi a una richiesta in tal senso arrivata direttamente dal presidente Trump (come nei casi del presidente ucraino Zelensky e del premier australiano Morrison). A terremotare il panorama politico italiano ci ha pensato il Dipartimento di Giustizia Usa, da cui per quanto abbiamo potuto ricostruire è trapelata la notizia dell’ultima visita di Barr.

Ma no, non è quella contro Papadopoulos la reazione scomposta che denota il nervosismo di Renzi, quanto l’attacco frontale, via tv, al presidente del Consiglio Conte sulla delega ai servizi, che il premier ha ritenuto di tenere per sé.

Di domenica l’intervista a La Stampa in cui Renzi chiede di “mettere fine alla strana anomalia che vede da anni i servizi dipendere solo dal premier: serve la nomina dell’Autorità delegata. Il ruolo che con me aveva Marco Minniti, per intendersi. E, prima di lui, Gianni De Gennaro”. Nella stessa intervista un esplicito attestato di stima per i professionisti che guidano Aise e Aisi, ma non per il capo del Dis Vecchione, scelto dal premier.

Lo stesso giorno, ospite di “In Mezz’ora”, Renzi rincara la dose. Chiede a Conte di chiarire sui contatti tra i servizi italiani e Barr ma, soprattutto, di mollare la delega sui servizi: “Dia la delega a un professionista. Lo suggerisco nell’interesse stesso del presidente del Consiglio”.

Una polemica che ci si potrebbe aspettare da un leader di opposizione, non della maggioranza. E proprio da senatore dell’opposizione Renzi, a quanto ci risulta, nell’ultimo anno di governo giallo-verde non ha mai posto la questione della “strana anomalia che vede da anni i servizi dipendere solo dal premier”, né in precedenza quando a detenere la delega è stato il suo successore a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni.

Nella sua enews settimanale, ieri, Renzi ha liquidato come “ridicolo” un presunto complotto suo e di Obama contro Trump, ha reso noto di aver chiesto danni per “un milione di dollari” a Papadopoulos ed è tornato sui servizi segreti, che “difendo e difenderò sempre”. Ma, ha aggiunto, “penso che sia utile che, se ci sono dubbi sull’operato di qualche dirigente, si affronti il problema nella sede idonea, che è il Copasir”. E il riferimento sembra essere, di nuovo, all’uomo di Conte: Vecchione.

Tre duri interventi in due giorni. Mentre abbassa i toni della polemica sul taglio del cuneo fiscale e l’eventuale “rimodulazione” delle aliquote Iva, l’ex premier alza la tensione sull’intelligence, che sembra aver sostituito l’aumento delle tasse in cima alle sue preoccupazioni, tra le red line imposte a Palazzo Chigi. Renzi è comprensibilmente più sensibile al tema dei servizi da quando sono emersi gli incontri con Barr, che sottintendono una volontà di collaborazione del premier con gli uomini di Trump. In che fase è, e fin dove può arrivare questa collaborazione? È del tutto evidente che fondati o meno i sospetti di un coinvolgimento italiano nello SpyGate, Renzi fa bene a temere di passare mesi a difendersi da leaks e rumors incontrollabili. La versione che oggi Conte fornisce a la Repubblica sugli incontri non è rassicurante per Renzi (e Gentiloni): volevamo “chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull’operato dei nostri servizi all’epoca dei governi precedenti“.

La soluzione di compromesso che secondo la Repubblica il Pd si preparerebbe “informalmente” ad avanzare, per chiudere almeno questo fronte di tensione nella maggioranza, è “attribuire la delega a Marco Minniti”. Guarda un po’, proprio colui al quale i premier Letta e Renzi, del Pd, l’hanno affidata nel 2016, il periodo delle elezioni presidenziali sotto la lente di ingrandimento a Washington.

Da Palazzo Chigi non si nasconde anzi si palesa l’irritazione di Conte, che non intende cedere al diktat di Renzi. Il premier se la prende con quelle che definisce “ricostruzioni false e fuorvianti”, con “fonti che vogliono screditare l’operato dei servizi e alterare la realtà”, “giochi interni che ci sono sempre stati ma che ora non accetta più”. Dopo che avrà parlato al Copasir, “si occuperà personalmente di un chiarimento interno”. Con chi ce l’ha? Di sicuro con chi alimenta “fughe di notizie o frammenti parziali di informazioni sui giornali”. Si riferisce, forse, alle fonti dei servizi che all’Ansa hanno raccontato che all’incontro con Barr e il procuratore Durham i direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, hanno partecipato perché “convocati per iscritto” da Vecchione; che nessun nastro di Mifsud, nessun elemento o dossier relativo al professore sarebbe stato fornito agli inviati di Trump, contrariamente a quanto riportato da altri media; che si sarebbe trattato di “un semplice incontro di cortesia”, in cui i nostri 007 “si sono limitati a spiegare che non sanno nulla di che fine abbia fatto Mifsud” e che “per qualsiasi richiesta la strada più idonea da seguire è quella dei canali ufficiali, tramite rogatoria”. Quasi una nota per smarcarsi, opera forse di quei livelli intermedi dei servizi che hanno subito approfittato della polemica per mettere sulla graticola Vecchione.

Conte insiste anche che l’incontro con Barr e Durham si sarebbe tenuto a Piazza Dante, sede dei servizi italiani, e non all’ambasciata Usa come riteniamo più probabile: un dettaglio politicamente rilevante, quello della territorialità, che definisce i rapporti di forza tra gli interlocutori (sono venuti loro da noi, non il contrario). “Sono più duro perfino di quanto fu Bettino Craxi a Sigonella” nel difendere l’interesse nazionale (quando nel 1985 Craxi si rifiutò di consegnare un terrorista atterrato in Italia al presidente Reagan), si difende il premier secondo un retroscena di oggi sul Corriere. Dunque, dobbiamo concludere che si sarebbe rifiutato di “consegnare” Mifsud? Comunque, non un paragone rassicurante per Washington.

Come abbiamo già cercato di spiegare, gli incontri dei vertici della nostra intelligence con Barr mettono il premier Conte in una delicatissima posizione, dal momento che una piena collaborazione con le autorità americane potrebbe significare esporre le componenti della sua attuale maggioranza: le indagini potrebbero infatti far emergere la vicinanza di Mifsud a esponenti politici Pd ferventi ammiratori di Hillary Clinton, come Pittella, il ruolo del nostri servizi sotto i governi Renzi e Gentiloni, nonché quello della Link Campus e i suoi rapporti con lo stesso mondo dell’intelligence e con il Movimento 5 Stelle.

Da una parte Renzi, dunque, ma dall’altra, sui rapporti con l’amministrazione Trump si è aperto un secondo fronte, con un’altra gamba della maggioranza: i 5 Stelle, a partire dal ministro degli affari esteri Luigi Di Maio, che chiedono di ridimensionare gli acquisti di F35, un nuovo caso Tav. E anche qui il premier si barcamena: “Conte è d’accordo sulla rinegoziazione”, fanno sapere fonti di Palazzo Chigi. Bene, ora bisogna avvertire la Casa Bianca… Posizione altrettanto difficile però quella di Renzi, che può intensificare la sua pressione ma che non può permettersi (non ancora) di far cadere il governo, ammesso che i “suoi parlamentari” siano disposti a sacrificarsi per lui.

Non solo Renzi e Conte, un certo nervosismo si avverte anche dalle parti dell’ambasciata Usa a Roma. Alcuni diplomatici e funzionari d’intelligence di Via Veneto non sapevano bene quale fosse il motivo della visita di Barr a Roma, ha scritto domenica il New York Times, citando due fonti secondo cui furono “sorpresi” di scoprire che l’Attorney General aveva aggirato i protocolli nell’organizzazione della sua missione, durante la quale ha incontrato funzionari politici e dei servizi italiani.

Credendo di esporre l’irritualità della visita di Barr, queste fonti in realtà stanno mettendo in evidenza quanto poco gli uomini del presidente si fidano dei propri funzionari. Un autogol, un’autodenuncia. In effetti, l’ambasciata a Roma, insieme ai centri culturali a stelle e strisce nella capitale, è tra i nodi dell’amministrazione Usa dove è più attiva la resistenza anti-Trump e più intatta la rete di amicizie clintoniane. Il che non fa che alimentare il sospetto che nel 2016 qualche attività per sabotare il candidato e poi presidente eletto Trump possa esserci stata.

Incontri “inusuali”, insistono i media liberal al di là e al di qua dell’oceano, che rischiano di minare la fiducia tra intelligence di Paesi alleati, anche per il rischio di condividere informazioni ad uso di politica interna.

Ma come alcuni avevano per tempo avvertito, si sta rivelando un pericoloso precedente e un boomerang per i Democratici e i media liberal aver applaudito a un’amministrazione che indagava e metteva sotto sorveglianza la campagna presidenziale rivale – nonostante l’inchiesta poggiasse su basi fragilissime, il caso Mifsud-Papadopoulos e il Dossier Steele, e l’FBI ne fosse consapevole dall’inizio, come emerge dalle comunicazioni interne all’Agenzia stessa. Oggi infatti si trovano in una posizione contraddittoria e insostenibile: come possono pretendere, sgonfiato il Russiagate, che interrogarsi sull’operato dell’amministrazione precedente equivalga ad alimentare “teorie della cospirazione” e scandalizzarsi fino a chiedere l’impeachment, se Trump vuole vederci chiaro su chi ha indagato così invasivamente su di lui?

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