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Collasso Pd e crisi della socialdemocrazia europea: élite in decadenza e politica delle minoranze non bastano. Intervista a Marco Gervasoni

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Intervista a Marco Gervasoni, editorialista del Messaggero, professore di storia contemporanea all’Università del Molise e storia comparata dei sistemi politici all’Università Luiss di Roma.

MARTINO LOIACONO: Professore, partiamo subito dalle clamorose disfatte di Pisa, Siena e Massa: che significato hanno per il Pd? Possiamo parlare di orlo del baratro per il partito di Martina?

MARCO GERVASONI: Sì, anche se la dissoluzione del Pd come organizzazione la si avrà nei prossimi due anni se dovessero cadere anche le giunte regionali di Toscana ed Emilia Romagna. Quello che colpisce di più è il risultato di Siena, dove l’apparentamento delle due liste di centro-sinistra in vista del ballottaggio non ha evitato una clamorosa sconfitta. Ciò che resta del partito (ma non solo del Pd, anche Liberi e Uguali) non ha più alcuna influenza sulle scelte degli elettori.

ML: Perché un partito che fu profondamente radicato sul territorio – penso alle tante sezioni del Pci che popolavano le regioni rosse – ha perso il contatto con il proprio elettorato di riferimento?

MG: Anche in quelle regioni il Pd è diventato il partito delle élite, combinando quelle in decadenza con quelle improduttive: i più istruiti, i più colti, quelli più legati al mondo dell’immateriale e anche all’economia globale (stiamo parlando di regioni tra le più ricche e produttive del paese). Se si può parlare di mutazione antropologica, concetto che utilizzerei con molta prudenza, è proprio questo il caso. La Lega ha parlato e parla invece a una fascia importante dell’elettorato di classi medie e di operai, senza per questo rompere con i piccoli e medi imprenditori che nelle regioni rosse sono sempre stati importanti e hanno, fino a poco tempo fa, votato a sinistra.

ML: Da partito di massa a partito delle élite: come si spiega il mutamento del Pd?

MG: L’elitizzazione, se così si può dire, del Pd ha una lunga storia, cominciata con la fine del Pci. Ma sono fenomeni che riguardano tutti i partiti del socialismo europeo: la gabbia di Maastricht e dell’euro non consente, perché non può farlo, una politica nazionale di redistribuzione delle risorse, e neanche una politica nazionale di investimenti. Finisce così la ragion d’essere della socialdemocrazia, che per sopravvivere deve rivolgersi alla tutela delle minoranze (immigrati, gay, rom) e degli affluenti globalizzati, allontanandosi dal suo elettorato tradizionale che invece resta nazionalizzato. La famiglia politica che aveva più interesse a difendere lo Stato-nazione, la socialdemocrazia, è quella che invece l’ha fatto buttare a mare con più zelo e più entusiasmo.

ML: In questo processo che ruolo ha avuto Renzi? Il referendum del 4 dicembre può essere considerato un momento decisivo?

MG: Renzi ha cercato di frenare una tendenza già visibilissima negli anni di Veltroni e di Bersani. Ma lo ha fatto andando nella direzione opposta rispetto a quella richiesta: invece di diminuire il divario tra ottimati e popolari, si è schierato quasi sempre con gli ottimati. Il problema è però che gli ottimati sono molti meno dei popolari. E il potere di influenza dei primi (media, stampa ecc.) è ormai quasi ridotto a nulla rispetto a un tempo. Tuttavia il 4 dicembre nelle aree rosse il Sì al referendum non era andato così male: da allora si è consumata una’ulteriore rottura.

ML: Quali sono i temi su cui il Partito democratico ha fallito? Molti hanno parlato di una cattiva gestione dell’immigrazione…

MG: È stato il dossier più disastroso, proprio da parte del governo Renzi. Gentiloni poi ha cercato di chiudere la falla, ma era troppo tardi. È bastato il cambio di governo e un gesto, in fondo minimo da parte di Matteo Salvini, la minaccia di chiudere i porti (formalmente, questi infatti non sono stati chiusi), per far saltare due narrazioni su cui il Pd aveva costruito quasi tutto: che non si potesse fare nulla contro l’immigrazione e che solo non rompendo con l’Ue si sarebbero ottenuti risultati. È vero l’esatto contrario.

ML: Quali sono le prospettive per il centrosinistra? Il dibattito interno sembra totalmente autoreferenziale: crede che possa funzionare il Fronte Repubblicano proposto da Calenda?

MG: Le élite in decadenza (come insegnava Vilfredo Pareto, da rileggere con attenzione) diventano, per usare un linguaggio contemporaneo, autoreferenziali. Vedono il mondo solo dal loro pertugio, e pensano che, se le cose non vanno, è per una mancanza di volontà: se l’Europa non funziona bisogna avere più Europa e così via. L’idea di fronte repubblicano, al di là del nome ridicolo, non può reggere perché fondato sull’idea di un’alleanza antipopulista che metta insieme ciò che resta del Pd con ciò che resta di Forza Italia. Ma, a parte qualche dirigente o deputato di FI che voglia salvare la propria carriera, non vedo alcuna possibilità che i berlusconiani (soprattutto gli elettori) finiscano così.

ML: Alla luce di questi risultati quanto può durare il governo giallo-blu? Esiste ancora un’opposizione di sinistra?

MG: L’opposizione è demandata come abbiamo visto in questi giorni, a uomini di spettacolo (tale, più che uno scrittore, va definito Roberto Saviano), esattamente come era successo dopo la sconfitta del 2001. Oppure ci si appella allo straniero (in questo caso, Macron) per liberarci, come nel 1994. Ma allora esisteva ancora l’organizzazione, il Partito, di cui ora restano in piedi solo macerie pericolanti. Se il governo dovesse implodere ciò avverrà per via della scarsa omogeneità di 5 Stelle e Lega, non certo per il Pd. Anche se per il momento Conte e il suo esecutivo si sono dimostrati molto più solidi di quanto molti di noi pensassero.

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