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Cosa ci dice l’arresto di Joshua Wong: il regime comunista cinese non cambia. E scommette sull’ignavia dell’Occidente

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Joshua Wong Chi-fung nasce nel 1996 in una Hong Kong ancora formalmente britannica. Nel 2014, appena diciottenne, diventa il volto più conosciuto di una protesta che per 80 giorni chiede elezioni libere e trasparenti, tra migliaia di ombrelli aperti come unico scudo contro i gas urticanti della polizia cinese.

Due anni dopo fonda, con Agnes Chow, il partito pro-democrazia Demosisto, fatto a pezzi lo scorso giugno da una legge di sicurezza nazionale lanciata come una bomba atomica da Pechino su quel che restava dell’indipendenza della regione speciale. Molti attivisti abbandonano e si rifugiano all’estero. Joshua Wong sceglie di restare, anche se sa che gliela faranno pagare cara. Ieri, verso l’una del pomeriggio (mattina in Italia) lo prelevano e lo portano alla stazione centrale della polizia. Dopo tre ore lo rilasciano con l’accusa di partecipazione illegale alle manifestazione del 5 ottobre 2019 e di violazione della legge sull’uso di maschere nei raduni pubblici. Un pretesto, un avvertimento, non una notizia. Joshua Wong conosce già le patrie galere: nel 2017 passa sei mesi in cella per il suo ruolo nel movimento degli ombrelli, altri tre tra il 2018 e il 2019 per resistenza a pubblico ufficiale e offesa alla corte. Pretesti, avvertimenti, non notizie. L’eterno gioco delle dittature per farti sapere che non sei mai solo, che il grande occhio è sempre su di te. Joshua Wong sarà processato il 30 di settembre e rischia sei anni di buio. Appena rilasciato ha dichiarato che lui non si arrenderà mai, perché molti suoi compagni sono detenuti ingiustamente per le stesse ragioni, a Hong Kong e in Cina.

È un guerriero Joshua Wong, ma di una guerra già persa. Il Partito Comunista Cinese (PCC) non si fermerà, l’abbiamo scritto più volte, perché la sua natura predatoria ha bisogno di continui sacrifici per alimentare la macchina della sottomissione. I sinologi, a volte in buona fede ma più spesso semplicemente addomesticati dall’ideologia, cercano invano di trovare cesure, soluzioni di continuità, nella lunga storia di morte e oppressione che dal 1949 è il racconto quotidiano della Cina popolare. Quel che succede oggi a Hong Kong, in Tibet, nello Xinjiang, ma in realtà in tutto il territorio cinese, non dipende dalle circostanze politiche del momento, dal carattere più o meno autoritario di un segretario generale, dalle dinamiche interne al Partito, che pur sono presenti: dipende dal vizio originale di una rivoluzione – l’ennesima – trasformatasi da subito in un perfetto strumento di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.

Nel clima di quest’epoca confusa e bugiarda in cui l’autoritarismo, soprattutto se di matrice social-comunista, trova schiere di negazionisti disposti alla sua riabilitazione, un’ovvietà come questa diventa un’affermazione quasi sacrilega. Come dimostrato dall’esaltazione postuma di Rossana Rossanda, una sorta di rituale collettivo attraverso cui rendere omaggio, come se di una vestale della democrazia si trattasse, a una militante comunista che – legittimamente, ci mancherebbe – scelse di sposare la causa maoista e la promosse dalle colonne del Manifesto. Lo stesso giornale che l’anno scorso celebrava senza nessun indizio di autocritica (parola che pure dovrebbe essere cara ai compagni) i 70 anni della Repubblica Popolare Cinese, in un lunghissimo e dettagliato speciale apologetico dove non appariva mai il termine “dittatura”.

Oggi, non erede ma prosecuzione di uno dei sistemi ideologici più sanguinari del XX secolo (è una bella lotta a sinistra, me ne rendo conto), il PCC dimostra di aver capito perfettamente l’aria che tira in Occidente: dopo aver provocato la diffusione del virus più letale da cent’anni a questa parte e averne incassato i dividendi grazie ad una sapiente operazione di propaganda e di occupazione delle apposite istituzioni internazionali, può concentrarsi senza dover nemmeno dissimulare a chiudere i conti con le “province ribelli”, perfettamente consapevole dell’impunità assoluta di cui disporrà.

È l’esportazione del massacro di Piazza Tiananmen in slow motion. Oggi come allora, business as usual. Joshua Wong è una mosca che vola attorno ai volti congestionati dei gerarchi comunisti.

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