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Craxi, una traiettoria culturale e politica di innovazione (invece il Pci…)

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“Uno sguardo sul mondo”, il nuovo volume che raccoglie gli appunti e gli scritti di politica estera prodotti da Bettino Craxi negli anni dell’esilio ad Hammamet, è solo l’ultimo importante tassello del processo di riabilitazione storica del leader del Psi. Le belle recensioni di Marco Gervasoni e Daniele Capezzone aiutano a capire il valore e l’attualitàdella sua visione sulle questioni internazionali. A tutto ciò, per comprendere nella sua complessità il personaggio storico Craxi, deve essere affiancata la sua elaborazione politico-culturale. Solo in questo modo può essere cancellata la vergognosa damnatio memoriae generata dal giustizialismo sorto sull’onda di Mani Pulite. Secondo questa vulgata il segretario socialista sarebbe stato l’emblema della corruzione e del malaffare. Un losco figuro che a suon di tangenti avrebbe ridotto l’Italia in miseria. L’operazione giornalistico-giudiziaria messa in atto nel triennio 1992-1994 ha infatti avuto come obiettivo quello di distruggere la sua figura. Da qui è nata la nota equazione Craxi = corruzione.

Ripercorrere alcuni momenti della sua carriera politica può aiutare a superare quest’ingiusta condanna storica e moraleper riequilibrare un giudizio che, come per tutti i grandi della Storia, presenta delle luci e delle ombre.

L’anno decisivo per comprendere l’intera vicenda è il 1976. Dopo le elezioni del 20 giugno, in cui i socialisti toccarono il minimo storico, Craxi venne eletto segretario del Psi. Da quel momento, dopo un biennio di assestamento (gli anni della cosiddetta solidarietà nazionale tra Pci e Dc), questi diede prova di un grande dinamismo culturale e politico che cambiò per sempre la sinistra italiana. Culturalmente,sostenuto dagli intellettuali di “Mondoperaio”, mise in luce le gravi contraddizioni dell’ideologia comunista che,secondo le tante analisi dei ‘chierici’ della rivista, era costituita da un insieme di pulsioni antidemocratiche, collettivizzanti e in ultima istanza liberticide. Basta leggere il suo saggio su Proudhon (probabilmente scritto con l’aiuto di Luciano Pellicani) per capire la portata degli articoli in cui veniva evidenziata con grande lucidità l’incompatibilità del marxismo-leninismo con la democrazia. Il tutto mentre i comunisti si crogiolavano in ampollose discussioni sull’eurocomunismo e sull’austerità, mantenendo ben saldo il centralismo democratico.

La messa in discussione della centralità culturale del Pci, che aveva significato egemonia nel campo delle sinistre, comportò la liberazione dal senso di inferiorità che aveva schiacciato i socialisti dopo gli anni del frontismo e diede avvio ad importanti novità. Il superamento del massimalismo comunista, che mai nessuno aveva osato criticare, e il conseguente approdo al riformismo fu uno dei più grandi traguardi raggiunto dai socialisti in quegli anni.

Politicamente Craxi trasse le conseguenze delle intuizioni degli intellettuali di “Mondoperaio”. Innestò un nuovo dinamismo nella politica nazionale capendo che l’Italia degli anni Ottanta aveva bisogno di un serio processo di modernizzazione. Essa sarebbe dovuta passare dall’innovazione della carta costituzionale e dall’appoggio alle forze più dinamiche della società. I socialisti promossero diverse iniziative in cui discussero possibili riforme costituzionali. In una prima fase teorizzarono il rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, con una conseguente razionalizzazione del parlamentarismo. In un secondo momento proposero il presidenzialismo. Il tanto vituperato Craxi fu dunque il primo a proporre una riforma complessiva della Costituzione. Tutti temi a dir poco attuali.

Lo stretto rapporto con Milano, poi, aiutò il leader socialistaa comprendere che l’Italia stava cambiando e gli permise di sintonizzarsi sulle frequenze di una società in fermento. Da qui il superamento della pietrificata sociologia marxista, innovata con le categorie di merito e bisogno proposte da Claudio Martelli, che sostituivano la lotta di classe tra borghesia e proletariato. Un insieme di novità pensate per superare un’ideologia ormai anacronistica che non era più in grado di descrivere e comprendere la società del tempo.

Se dal punto di vista dell’elaborazione teorica il Psi degli anni Ottanta non fu secondo a nessuno, politicamente ebbe diverse difficoltà: sia perché dovette affrontare i due partiti chiesa Pci e Dc, due giganti a livello elettorale e organizzativo-finanziario, sia perché non riuscì mai a sfondare elettoralmente (il suo massimo storico fu il 14,3 per cento ottenuto alle politiche del 1987). Resosi conto di questa situazione – il suo partito era un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di vasi di ferro -, Craxi decise, forse in modo spregiudicato, di sfruttare e potenziare tutto il meccanismo del finanziamento illecito alla politica. Un mondo notissimo alla stragrande maggioranza dei politici, con il quale si alimentava in modo più o meno legale il sistema dei partiti. Mossa moralmente deprecabile ma necessaria per affrontare l’oro di Mosca che alimentava il Pci (altro che superiorità e diversità morale…) e tutte le industrie di Stato da cui la Dc traeva importanti fonti di sostentamento. Il suo dinamismo, questo azzardo e il suo potere coalittivo (il Psi era indispensabile per formare qualsivoglia governo data la conventio ad excludendum), gli permisero di governare dal 1983 al 1987. Nonostante quattro anni di buon governo, la Dc di De Mita cercò di fermare il decisionismo craxiano e costrinse il leader socialista a firmare il patto della staffetta secondo il quale nel quinquennio seguente il primo ministro sarebbe stato un democristiano.

Le elezioni del 1987 furono avare di soddisfazioni per il Psi che non ottenne l’incremento di voti sperato. Da quel momento i socialisti si chiusero nei palazzi del potere in attesa del cambio sancito dalla staffetta. In questo quinquennio iniziò il tramonto di Craxi che da innovatore divenne conservatore. Non riuscì a limitare la perversa spirale del sistema di finanziamento illecito alla politica che si dilatò drammaticamente e perse il dinamismo che aveva caratterizzato la prima fase della sua segreteria. Un arroccamento difensivo e attendista che oscurò l’immagine di uno statista autorevole.

Gli ultimi anni della vita politica di Craxi furono comunque importanti perché emerse chiaramente che le sue analisi sul comunismo erano corrette. La caduta del muro di Berlino e la disfatta storico-politica del Pci confermarono le sue tesi. Tuttavia le ragioni della storia vennero rovesciate nelle aule di giustizia e nei processi sommari tenuti nelle piazze, sui giornali e in televisione. Infatti, tra il 1992 e il 1994, con le inchieste di Tangentopoli sul finanziamento illecito alla politica, Craxi fu letteralmente massacrato dal fronte giustizialista costituito da un terribile meccanismo giornalistico-giudiziario.

I postcomunisti non solo supportarono tale sistema, ma lo sfruttarono a proprio vantaggio per crearsi una nuova identità, rivelatasi poi vacua, e per annientare il leader del Psi. Basta leggere alcune cronache de “l’Unità” o di “Repubblica” per rendersi conto di quel che accadde. Il Pds, tramite una riverniciatura moralistica, dimenticati colpevolmente i cospicui finanziamenti sovietici, divenne il partito dell’onestà e della giustizia sommaria. Con Occhetto i postcomunisti, fiancheggiati da una parte dei magistrati e dalla maggioranza della stampa, lavorarono per abbattere il sistema dei partiti e per distruggere chi per primo, da sinistra, aveva messo in discussione l’ideologia comunista e aveva relegato il Pci all’opposizione per quasi vent’anni. Questa battaglia giudiziaria fu vinta dal Pds. Nonostante il meccanismo del finanziamento illecito fosse un sistema diffuso e ben radicato in tutti i partiti, Craxi ne divenne il capro espiatorio. E così fu costretto all’esilio a causa di un grave clima d’odio ben rappresentato dal vergognoso linciaggio avvenuto presso l’hotel Raphaël.

In tal modo i postcomunisti eliminarono per via giudiziaria, e non politicamente, la cosiddetta partitocrazia, pensando di vincere facilmente le elezioni che si profilavano all’inizio del 1994. Non consideravano però che avrebbero dovuto affrontare un nuovo avversario: si chiamava Silvio Berlusconi. Tutti i nodi sarebbero venuti al pettine.

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