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Cuba si ribella alla dittatura: è davvero l’inizio della fine del Castrismo?

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È cominciato tutto intorno all’una del pomeriggio di domenica nella località di San Antonio de los Baños, a una trentina di chilometri da L’Avana. Un folto gruppo di persone è sceso in strada gridando consegne anti-governative: “Libertà! Abbasso la dittatura! Non abbiamo più paura!”. Le immagini della protesta si sono diffuse rapidamente in rete, nonostante la censura e le interruzioni del servizio, in una chiamata spontanea alla ribellione civile contro il regime comunista che da 62 anni costringe una popolazione di 11 milioni di abitanti all’isolamento, alla miseria e alla repressione. Un evento inusuale, in ogni caso, laddove tradizionalmente dominano paura e rassegnazione.

Le manifestazioni si sono poi estese come i tasselli di un domino su tutto il territorio dell’isola: centri minori intorno alla capitale, Alquízar, Güira de Melena, San José de las Lajas, Bauta, ma anche capoluoghi di provincia quali Camagüey, Matanzas, Pinar del Río, Ciego de Ávila e Santiago de Cuba. E poi, a migliaia, sul Malecón de L’Avana, teatro dell’ultima grande manifestazione che si ricordi, nel lontano 1994. Allora furono le restrizioni del “periodo speciale”, seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, a provocare un’esplosione di malcontento popolare prontamente ricondotto dalle forze di sicurezza e dall’intervento di Fidel Castro in persona, che scese tra la folla ottenendone l’acquiescenza.

Originate dalla disperata situazione sanitaria in piena epidemia da Covid-19 e dall’acuirsi della crisi alimentare in un’economia già terribilmente provata da sei decenni di socialismo reale, le rivendicazioni odierne assumono però un chiaro significato politico e un preoccupante – per il regime – carattere anti-totalitario: “Cuba non è vostra”, urlavano nel pomeriggio di domenica centinaia di persone davanti alla sede del Partito Comunista Cubano (PCC). Difficile per chi comanda continuare a sostenere che gli oppositori sono soltanto mercenari pagati dalla CIA, gusanos dell’imperialismo.

Se nel 1994 fu una combinazione di carisma personale e di minacce a placare la rivolta, nel 2021 il líder máximo assume le sembianze sbiadite di un tipico funzionario di partito cooptato dalla dinastia Castro a incarnare il volto ufficiale della dittatura: il sessantunenne Miguel Díaz-Canel Bermudez, il cui arrivo a San Antonio de lo Baños, mentre le autorità spegnevano telefoni e Internet, è riuscito soltanto ad esacerbare gli animi. In una dichiarazione inaudita perfino per gli standard criminali del regime, Díaz-Canel ha prima rivendicato il monopolio della piazza per i “rivoluzionari” (termine che nella lingua di legno dello stalinismo caraibico indica i fedelissimi del partito unico), per poi avvertire di essere “disposto a tutto” per fermare i “mercenari e i contro-rivoluzionari” (altro must della retorica ufficiale), invitando infine “i rivoluzionari e i comunisti ad affrontare i manifestanti nelle strade”. Un richiamo esplicito alla violenza contro la popolazione civile, le cui conseguenze pratiche si misureranno nei prossimi giorni. Per il momento la polizia ha ripreso il controllo nella notte senza lampioni de L’Avana, piagata da settimane di black-out elettrici, mentre scattano le retate nelle case dei manifestanti. Testimoni oculari parlano di almeno una decina di morti negli scontri e di un numero imprecisato di detenuti e desaparecidos.

L’onda si vedeva arrivare, – ha scritto su Twitter la blogger dissidente Yoani Sánchez – bisognava solo ascoltare attentamente per sentire il rumore di fondo che cresceva, e ieri ci siamo tolti la museruola”. Sì, perché quel grido di “libertà” è penetrato forte e chiaro nei palazzi di un potere abituato a disporre a piacimento delle risorse naturali e umane dell’isola. Díaz-Canel, nervosissimo nel suo primo intervento, ha parlato nuovamente ieri mattina alla televisione di Stato, capovolgendo a favore del regime il senso degli avvenimenti del giorno prima: “È stata una giornata storica per la Rivoluzione”, la precarietà della situazione “si deve al blocco economico dell’imperialismo yankee” (a chi se no?), in un classico esempio di doublespeak orwelliano, tipico dei sistemi politici totalitari con l’acqua alla gola, costretti a mistificare la realtà per garantirsi la sopravvivenza. Nemmeno un accenno di autocritica, nessuna correzione di rotta.

Ma fino a quando? È questa la domanda che circola insistentemente non solo tra i cubani ma anche negli Stati del continente americano di cui Cuba è sponsor politico, cliente economico o avversario esistenziale. Vista la centralità del regime de L’Avana nella diffusione dell’ideologia comunista in America Latina, non è difficile ipotizzare che le ripercussioni di un crollo del sistema castrista sarebbero rilevanti in tutta la regione. Venezuela, Nicaragua, Bolivia, il Perù recentemente caduto in mano al populismo izquierdista di Castillo, la stessa Argentina seppur in maniera più sfumata, il Messico di Obrador, ma anche i movimenti sovversivi che stanno minacciando la democrazia cilena e quella colombiana, perderebbero un referente essenziale nella sedicente “lotta anti-imperialista”, espressione sotto cui si nasconde la persistente campagna pseudo-rivoluzionaria contro la democrazia liberale e lo stato di diritto.

Negli ultimi vent’anni l’economia cubana si è sostenuta sulle forniture petrolifere provenienti da Caracas in cambio dell’addestramento degli apparati di sicurezza venezuelani e dell’appoggio politico al regime chavista. Il crollo del settore energetico sotto Maduro e le restrizioni imposte dall’amministrazione Trump all’invio di denaro degli emigrati cubani verso la madrepatria hanno contribuito al collasso definitivo di un sistema economico strutturalmente disfunzionale. Contemporaneamente l’epidemia ha colpito frontalmente l’isola proprio nel momento in cui si riapriva timidamente al turismo internazionale, mettendo in luce le carenze oggettive di un sistema sanitario che la propaganda ha sempre venduto come il fiore all’occhiello della nazione. I cubani oggi hanno due vaccini a disposizione ma non le siringhe per somministrarli. L’incompetenza di Díaz-Canel e dell’attuale dirigenza ha fatto il resto: la riforma monetaria, intesa a limitare la circolazione del dollaro, ha ottenuto l’effetto inverso di debilitare il peso cubano; il rifiuto di aiuti umanitari per far fronte all’emergenza sanitaria (“propaganda del nemico”) ha condannato il Paese al contagio massivo; il raccolto della canna da zucchero, una delle poche risorse economiche nazionali, è ai minimi storici per “carenze organizzative e direttive”, come ha denunciato recentemente lo stesso presidente dell’azienda statale Azcuba. La storia contemporanea insegna che, normalmente, dalla fame alla rivolta anti-regime il passo è breve.

In diverse località teatro della protesta la polizia si è rifiutata di intervenire per reprimere le manifestazioni. Al suo posto sono arrivate le unità d’élite dell’esercito cubano, conosciute anche come berretti neri (boinas negras), da sempre note per le azioni violente nei confronti della popolazione civile. Nei mesi scorsi ha preso corpo un movimento artistico di natura politica, Movimiento San Isidro, formato da artisti e intellettuali che hanno denunciato apertamente la persecuzione della dissidenza. Anche in questo caso la risposta del governo è stata punitiva, attraverso le famigerate “azioni di rifiuto” (cittadini al servizio della dittatura incaricati di disperdere le manifestazioni) e una serie di condanne a pene di carcere. Dal movimento è nata la canzone Patria y vida, in opposizione allo slogan rivoluzionario Patria o muerte, che la popolazione ha adottato come un inno anti-totalitario nonostante la campagna di discredito e di boicottaggio da parte degli organi statali.

La protesta per il momento non ha un leader e la società civile cubana, stremata da sessant’anni di persecuzione, non è oggi in grado di esprimere un’alternativa chiara all’attuale sistema di potere. La via dell’emigrazione è preclusa non solo dalla naturale ritrosia della dittatura a permettere gli espatri ma anche da una delle ultime misure dell’amministrazione Obama che, nell’ambito della sua malintesa azione di appeasement nei confronti del Partito Comunista Cubano, sospese la cosiddetta politica dei piedi asciutti, piedi bagnati (pies secos, pies mojados), in base alla quale tutti i cubani che entrassero, legalmente o no, in territorio americano potevano accedere al permesso di residenza e a un lavoro retribuito. Una valvola di sfogo oggi inesistente che, paradossalmente, scarica tutta la pressione sociale sullo stesso regime che l’aveva così insistentemente avversata nel corso degli anni. Biden non vuole ripetere gli errori di Obama, anche per un chiaro interesse elettorale nella Florida dell’esilio, fa appello ai “diritti fondamentali e universali” del popolo cubano in una dichiarazione tardiva e un po’ troppo istituzionale per sembrare del tutto sincera, ma per il momento si guarda bene dal ripristinare il flusso di denaro tra Usa e Cuba bloccato da Trump.

Díaz-Canel è da domenica un leader dimezzato, sia dalla protesta popolare che comunque è destinata a spegnersi e a riaccendersi a intermittenza, sia dalla possibilità che, per salvare il sistema comunista, le forze armate del Paese decidano di sostituirlo con una personalità che goda della loro fiducia in un momento estremamente delicato come l’attuale. Una soluzione alla polacca (1981) che eviti la caduta del Muro de L’Avana e, con essa, l’implosione di una delle ultime ridotte di socialismo reale del pianeta. Dopo decenni di sussurri tra le mura domestiche e di pubblica adesione alle direttive del potere, i cubani sono passati all’azione: “Non abbiamo più paura”. E il bubbone infetto del castrismo ha cominciato a sgonfiarsi.