Cultura

Endurance, quinta puntata: la scialuppa della salvezza

Storia gloriosa di uno straordinario insuccesso, quinta puntata: l’arrivo a South Georgia Island e il salvataggio dei 22 superstiti dell’Endurance

Cultura

Nel libro-diario di bordo di Ernest Shackleton, pubblicato con il titolo “South” nel 1919, il comandante ricorda che la mattina del 13 aprile 1916 le condizioni degli uomini della spedizione Trans-Antartica erano ormai molto critiche, irriconoscibili e talmente provati nel fisico da non concedere ulteriori dilazioni dei programmi.

I 6 della James Caird

La scialuppa “James Caird” fu scelta da Sir Ernest per riprendere il mare, con sei uomini a bordo, mentre i restanti componenti la spedizione sarebbero rimasti su Elephant Island ad attendere i soccorsi. Grazie ad una pausa soleggiata nel maltempo quasi costante, Shackleton ed i suoi cinque compagni affrontarono la navigazione verso nord, con destinazione l’Isola della Georgia del Sud, dalla quale erano partiti.

Ma il bel tempo durò pochissimo e le burrasche con tempeste di neve iniziarono nuovamente a sferzare quella piccola imbarcazione in cerca di soccorsi e salvezza.

La rotta che il capitano Frank Worlsley aveva tracciato era quella giusta, non già in direzione della terraferma più vicina in assoluto, ossia le Isole Falkland, distanti 540 miglia da Elephant Island, ma quella per la ben più lontana Georgia del Sud, alla distanza di 800 miglia nautiche, poiché le forti correnti della tratta verso Port Stanley (Isole Falkland) avrebbero allungato il tempo di navigazione oltre quella soglia estrema di sopravvivenza che venne correttamente valutata dai due comandanti.

Una volta tracciata la rotta da seguire, non restava che resistere agli elementi avversi che si frapponevano tra l’ultimo accampamento e la salvezza e procedere, procedere ad ogni costo. Nel suo giornale di bordo, che Shackleton riuscì ad aggiornare sommariamente quasi ogni giorno, lo stesso annota: “Abbiamo combattuto i mari e i venti e allo stesso tempo abbiamo lottato quotidianamente per mantenerci in vita”.

Ed ancora: ”Generalmente noi fummo sostenuti dalla consapevolezza che stavamo facendo progressi verso la terra dove saremmo stati, ma c’erano giorni e notti in cui ci accovacciavamo, alla deriva, attraverso la tempesta che imbiancava il mare e guardavamo le masse d’acqua in aumento, scagliate avanti e indietro dalla natura nell’orgoglio della sua forza”.

La lotta contro le ripetute tempeste e le enormi onde che sballottavano la scialuppa come un salvagente in sughero perso da chissà quale nave li costringevano a correggere di continuo la direzione per restare in rotta, con l’unica certezza che mai li abbandonò; quella di essere sulla rotta giusta e che sarebbero giunti a terra se “soltanto” fossero riusciti a non capovolgersi.

South Georgia Island

Tutto ciò durò ben sedici giorni, ben oltre quel limite che la marineria dell’epoca considerava quello massimo di sopravvivenza in quelle condizioni e con quel tipo di imbarcazione.

Quando, alla fine, si avvistò il profilo di South Georgia Island, si scatenò l’euforia dei sei uomini della James Caird, subito smorzata dalla constatazione che le correnti, pur sommariamente dominate dai timonieri di turno, avevano sospinto la scialuppa verso il lato desertico e irto di montagne innevate, alte oltre duemila metri, dell’isola, oltretutto impossibilitati di bordeggiare lungo l’isola per raggiungere il porto principale.

Le correnti erano troppo forti e sarebbe stato altamente probabile essere ri-sospinti verso sud, perdendo poi facilmente di vista l’isola stessa, apparsa quasi miracolosamente in uno sprazzo di cielo sereno che parve a loro un segnale del destino. Quella l’unica possibilità di salvare tanto loro stessi che i loro compagni lasciati sull’Isola dell’Elefante: prendere o lasciare.

L’apparato radio, che peraltro aveva smesso di funzionare, era stato lasciato al campo precedente e non restava che una scelta, che presero risolutamente, dopo avere consultato le carte nautiche che avevano a bordo. Avrebbero puntato, a piedi e con una slitta di fortuna, verso la stazione baleniera di Stromness, distante oltre trenta miglia terrestri dal punto di attracco.

Dopotutto, si dissero per farsi vicendevolmente forza, erano partiti con l’intenzione di traversare il Continente Antartico a piedi, percorrendo terre largamente inesplorate, e avendo previsto certamente di superare ghiacciai e montagne. Si trattava ora di farlo su un territorio diverso, ma nemmeno troppo, dall’Antartide.

La “marcia all’azimuth”

Una volta scelta quella possibile soluzione non era più possibile tornare indietro, anche perché ormai le loro forze residue (forse) avrebbero reso possibile quell’unico sforzo finale. Ancora una volta, Shackleton riunì i suoi pochi compagni di avventura e disse: “Signori, io ho un grosso credito nei confronti della fortuna: è giunto il momento di passare alla cassa”.

Se qualcuno avesse voluto dissentire lo avrebbe dovuto fare in quel preciso istante. Calò quel tipo di silenzio che, in qualche rara occasione, capita d’ascoltare per pochi secondi quando soffia forte il vento.

Gli uomini, uno dopo l’altro, presero in spalle il loro carico e s’incamminarono lentamente dietro al capo spedizione, senza proferire verbo, fino ad un punto adatto ad impiantare l’ennesimo campo di fortuna, ove decisero che tre di loro sarebbero rimasti, mentre Shackleton, Worsley e Crean avrebbero proseguito verso Stromness. Si chiama “marcia all’azimuth” e comanda solo la bussola, quale che sia il percorso da affrontare.

Il numero 6

In tutta la storia della spedizione dell’Endurance ricorre un numero: il sei. Correva l’anno 1916, loro erano in sei, la navigazione della scialuppa “James Caird” era durata 16 giorni ed in sole 16 ore Shackleton ed i due compagni giunsero a Stromness, ove, senza nemmeno riposare, si misero subito ad organizzare la spedizione per recuperare i tre compagni rimasti oltre le montagne e quelli che erano rimasti su Elephant Island.

Crollarono in un sonno primordiale, non appena tornati al tepore di una casa vera e propria, e ci volle un bel po’ a risvegliarli. Finalmente, una stazione radiotelegrafica vera e propria avrebbe potuto inviare alle navi in transito la posizione geografica dei tre superstiti sulla stessa isola e di quelli rimasti su Elephant Island.

Ma, ancora una volta, le cose si complicarono perché, anche a causa della guerra, che stava raggiungendo la sua fase di massimo sviluppo, le navi dotate di stazione radio a bordo erano pochissime, perlomeno tra quelle a distanza utile per portare un immediato soccorso, oltre a possedere doti di navigabilità tra i ghiacci.

Il tempo massimo stava per scadere ed ogni giorno perso, persino ogni ora, poteva essere la fine per i superstiti dell’affondamento dell’Endurance. L’unica nave che si riuscì a reperire fu il rimorchiatore Yelcho, in servizio con la marina militare cilena, sufficientemente robusto e sicuro, ma, purtroppo, sprovvisto di apparato radio, perché, allo scoppio della guerra, si era preferito dotarlo di un cannone da 37mm.

Shackleton non esito un attimo, sarebbe salito lui stesso a bordo dello Yelcho ed avrebbe dato le indicazioni necessarie a riportare a casa i 25 uomini della sua spedizione. Dimenticavo… Il rimorchiatore Yelcho venne varato nel 1906, un altro bel “sei” finale.

La missione di soccorso

Una volta recuperati gli uomini rimasti sulla costa meridionale dell’isola, finalmente, il 25 agosto 1916, partì la spedizione di soccorso per Elephant Island, con Shackleton, Frank Worsley e Tom Crean che neanche allora lasciarono da solo il loro comandante.

Dopo soli cinque giorni di navigazione, lo Yelcho giunse presso Elephant Island. C’era una fittissima nebbia, ma il suo capitano, il cileno Pardo, ebbe il coraggio di continuare a navigare tra i lastroni di ghiaccio – che si era notevolmente sciolto rispetto a quando partirono i sei della scialuppa James Caird.

Ma ancora qualcosa, come in tutta questa bellissima storia, accadde all’improvviso: la nebbia si squarciò d’un tratto, inaspettatamente, ed un raggio di sole illuminò perfettamente nientemeno che il campo dei 22 superstiti, mostrando chiaramente alcuni uomini che si muovevano sulla banchisa. Da ambo le parti, tutti iniziarono ad urlare a squarciagola.

Il giornale di bordo riporta queste parole esatte: “La nebbia si è alzata e alle 11:40 Worsley ha individuato il campo. Yelcho si voltò verso la spiaggia e Shackleton gridò il consueto saluto: “State bene?” ricevendo la risposta “Stiamo tutti bene Boss”, seguita da tre applausi. Entro un’ora tutti gli uomini erano al sicuro a bordo e Yelcho si diresse a nord.”

Restava l’ultima missione: recuperare gli uomini della nave-appoggio Aurora, lasciati a McMurdo Sound, nel Mare di Ross. Ma, di questo, se vorrete, parleremo nella sesta ed ultima parte di questo racconto.

QUARTA PARTE <<< >>> SESTA PARTE

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it

LA RIPARTENZA SI AVVICINA!

www.nicolaporro.it vorrebbe inviarti notifiche push per tenerti aggiornato sugli ultimi articoli