Cultura

Giustizia vs vendetta. La memoria biologica dei traumi collettivi

Una traccia delle paure, delle sofferenze e dei traumi vissuti dalle generazioni passate può restare impressa nell’epigenoma di ogni individuo

Hamas strage rave

I tragici eventi seguiti all’azione terroristica di Hamas, con la rabbiosa reazione militare di Israele ha riportato di attualità il dibattito sulla contrapposizione giustizia vs vendetta. Sui media, ad interrogarsi sono maggiormente le personalità che ritengono sproporzionate e criminali le operazioni condotte dall’IDF. Gli strumenti retorici, che sono propri di ogni tecnica comunicativa, sembrano offrire al lettore “casuale” dei quesiti provocatori: “cosa avresti fatto se tu fossi a capo di Israele?”; “se tu fossi palestinese come giudicheresti l’occupazione israeliana e cosa resterebbe d’altro se non le azioni di Hamas?”.

Dalla vendetta alla giustizia

Domande per palati non sofisticati, che non possono che avere risposte bofonchiate, visto che sono rivolte a soggetti che nulla hanno a che fare con questi eventi, ma che si sentono in dovere di esprimere giudizi, come stessero commentando una partita di calcio al bar. All’interno di un più accreditato dibattito intellettuale, il 13 novembre scorso Girolamo De Michele lasciò un interessante contributo sulle pagine di EuroNomade. Una appassionata invettiva – ancorché ondivaga tra i colti riferimenti letterari ed una certa trivialità di linguaggio – con la quale nega la cittadinanza al “diritto alla vendetta”.

Tesi generalmente condivisibile, ma resa fragile dalle apodittiche affermazioni dell’autore. Egli, risalendo al mito eschileo ricorda come, illuminate dalla saggezza di Atena, le Erinni si trasformarono in Eumenidi, da divinità della “vendetta” a divinità della “giustizia”. Così facendo, si cita il commento di Pier Paolo Pasolini, che per Vittorio Gassman, nel 1960, tradusse l’Orestiade:

Certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto, acquisiti, assimilati e naturalmente modificati. In altre parole: l’irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (ché poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile. Le Maledizioni si trasformano in Benedizioni. L’incertezza esistenziale delle società primitive permane come categoria dell’angoscia esistenziale o della fantasia nella società evoluta.

Da queste parole l’autore trae spunto nell’affermare che la trilogia di Eschilo – con il suo ripudio della vendetta – rappresenta un pilastro inalienabile dell’Occidente e che quello che adesso si definisce occidente è una macchiettistica giustificazione di rapporti di forza. Non vi è dubbio che Eschilo si sia espresso in questo modo, ma non è corretto accettare queste preposizioni come una summa generale di tutto il mondo antico.

Giocare con gli antichi

Altrove abbiamo visioni diverse: che nel primo capolavoro omerico la guerra contro la città di Troia altro non era che una spropositata vendetta contro il torto di Paride, traditore del dovere di ospitalità? Che questo capolavoro non termini con la vendetta di Achille verso l’assassino del suo amato Patrocolo? In epoca ben più recente, rispetto ad Omero o a Eschilo, la battaglia di Filippi venne ricordata come l’evento eponimo di vendetta verso i cesaricidi, tanto che al Mars Ultor l’imperatore Augusto dedicò il tempio, posto al centro del foro chiamato con il suo nome.

Giocare con l’antichità è scivoloso e si possono trovare risposte affatto differenti tra di loro. Non è di ristoro neppure il pensiero religioso. Nel Deuteronomio troviamo che il Signore dice: “Mia sarà la vendetta ed il castigo”. Questa categorica affermazione trova riscontro in San Paolo (Lettera ai romani) dove l’uomo di Tarso scrive: “Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; poiché sta scritto ’A me la vendetta; io darò la retribuzione’”.

La nostra sensibilità di “moderni” ci porta a ritenere che la “vendetta” si può trasformare in equa giustizia. Non vi è modo di sapere, però, se gli antichi non intendessero quella divina proprio come “vendetta”, d’altronde nella citazione dall’Antico Testamento si parla della reazione del Signore di fronte all’empietà di Sodoma e Gomorra. Comunque, nei millenni, all’interno di polity organizzate, la vendetta privata si è tramutata in diritto positivo, in modo tale che ad un delitto corrispondesse una azione – proporzionata – da parte di chi deteneva il “monopolio della violenza”.

Non a caso nell’alto Medioevo, momento di crisi demografica e debolezza delle istituzioni politiche prese piede la faida. Questo spostare il baricentro dalla vendetta alla giustizia è possibile solo con una forte opera di astrazione, possibile solo in uno specifico ambito istituzionale. In ambito di speculazione filosofica si è fatto fronte al diritto alla vendetta con lo sforzo di identificare gli elementi fondativi dell’uomo (non degli uomini).

Questa speculazione, tutta occidentale (l’uomo) – tanto immateriale, quanto gli dei – cerca di sublimare i confliggenti istinti, le differenti volontà e passioni degli uomini reali. Operazione ardita, ma possibile solo in un ambito dove vi è un potere generalmente riconosciuto come tale.

Il conflitto tra stati

Ben più complessa la situazione dei conflitti tra polity o stati. In questo ambito caratterizzato dal principio del superiorem non recognosens, se non per specifica adesione di queste istituzioni ad un sistema sovranazionale, la proporzionalità dell’“azione-reazione” passa attraverso lo ius ad bellum. Astrazione, però, che non riesce a basarsi su elementi universalmente riconosciuti, proprio perché ogni attore spesso riconosce validi solo i propri parametri di giudizio.

Si prenda il caso in questione: l’azione terroristica di Hamas e la conseguente operazione militare di Israele. La prima può essere vista sia come la più grave e vile azione terroristica mai compiuta da una organizzazione privata verso un popolo ed uno stato, circondato da comunità politiche e religiose che spesso non ne hanno mai riconosciuto il diritto all’esistenza e tanto meno l’autodeterminazione, sia come l’applicazione del diritto di resistenza contro una brutale ed omicida occupazione della propria terra madre da quasi 80 anni, a cui è seguita una operazione che tanto può assomigliare ad un genocidio.

Per quante argomentazioni possano essere sollevate a favore di una delle due posizioni non si può non riconoscere che esse sono incomplete e non definitive. Entrambe le opzioni – come ogni possibile opzione in ogni parte del mondo – poggiano su basi parzialmente irrazionali. Dove può risiedere una proposta alternativa per la comprensione di questa irrazionalità che prescinde dall’educazione formale di ciascuno di noi?

La memoria biologica

Anche se può sembrare un modo di “tirare la palla in tribuna” si può proporre una riflessione dell’influenza dei marcatori epigenetici che si sviluppano in ognuno di noi a conseguenza della nostra esperienza o quella delle generazioni immediatamente precedenti. In letteratura compaiono sempre più ricerche che dimostrano come gli effetti di un ambiente negativo si possano riflettere sulle generazioni future. In fondo una delle domande che affascina da sempre gli uomini è: “come diventiamo quello che siamo?”.

Per rispondere a tale domanda la ricerca in psicologia si sta impegnando nel cercare di comprendere come la predisposizione genetica e le esperienze salienti della vita possano modellare il comportamento umano e lo sviluppo psicologico. Quindi gli effetti di un trauma potrebbero essere legati ad alterazioni dell’espressione dei geni, che si perpetuano anche in assenza dell’evento che le ha generate.

Un concetto importante che emerge dagli studi epigenetici nel Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è che esso si può manifestare in persone che hanno subito o hanno assistito a un evento traumatico, catastrofico o violento, oppure che sono venute a conoscenza di un’esperienza traumatica accaduta ad un familiare o una persona cara. Sembra dunque possibile che si possano ricevere in eredità da genitori e nonni (e generazioni precedenti) anche dei marcatori epigenetici, che andrebbero a formare una sorta di memoria biologica delle esperienze e di ciò che questi hanno appreso nel corso della vita.

Si pensi alle storie sulle prigionie di guerra, l’Olocausto, le carestie che sono state raccontate dagli antenati e si rifletta su quanto sia funzionale, all’analisi degli eventi storico-sociali, che una traccia delle paure, delle sofferenze e dei traumi vissuti possa essere impressa nell’epigenoma di ogni individuo.

Mediazione impossibile

Quando queste esperienze “personali” sono condivise da ampie comunità di individui che vivono nel medesimo territorio, esse hanno conseguenze nelle scelte politiche di queste comunità. Si comprende, quindi, come vi possano essere sensibilità tra loro conflittuali e non sempre risolvibili con la ragione, quando queste sono frutto di “ferite dell’anima” che risalgono a generazioni precedenti.

Ecco l’impossibilità della mediazione – se non per aspetti contingenti e tattici – dei conflitti mediorientali; ecco i risorti e, in verità, mai veramente sopiti odi nell’Europa orientale. L’uomo sarà stato fatto a immagine di Dio, ma i singoli individui nascono dalla mota delle proprie storie.

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