CulturaEconomiaLibriQuotidianoRecensioni

La libertà sotto assedio: Hayek contro la giustizia sociale, nell’ultimo libro di Alberto Mingardi

4.7k
Cultura / Economia / Libri / Quotidiano / Recensioni

Ancor più dell’impatto sanitario della pandemia è la naturalezza con cui abbiamo accettato la limitazione di libertà fondamentali quel che rischia di lasciare un segno indelebile sul futuro delle nostre società democratiche. Il messaggio secondo cui per fronteggiare l’emergenza era necessaria un’espansione indefinita del raggio d’azione del potere pubblico è penetrato come un dogma nelle nostre coscienze già debilitate da anni di propaganda anti-liberale. La libertà è diventata sinonimo di irresponsabilità e la prospettiva che qualcun altro decida per noi, invece di spaventarci, diventa una supplica di protezione rivolta allo Stato: più divieti, più controllo, più lockdown. Poco importa se i provvedimenti restrittivi non servono in realtà a migliorare la gestione delle risorse sanitarie e a rafforzare le strutture di contenimento dell’infezione: quella che si sta combattendo è ancora una volta una battaglia essenzialmente ideologica in cui, attraverso l’imposizione della falsa dicotomia tra libertà e salute, si proietta sui cittadini il ricatto morale che da sempre giustifica l’interventismo pubblico, l’idea di una “giustizia sociale” che prevale su qualsiasi diritto individuale.

Proprio all’analisi del concetto di giustizia sociale e delle sue contraddizioni è dedicato l’ultimo libro di Alberto Mingardi, “Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna”, pubblicato da Marsilio Editore. Mingardi propone una lettura dell’opera del massimo esponente del liberalismo moderno centrata sulla critica alla pretesa secondo cui “la società avrebbe dovuto considerarsi responsabile della particolare posizione materiale di tutti i suoi membri, e della certezza che ognuno ricevesse ciò che gli era dovuto”. Hayek non si oppone, evidentemente, alla solidarietà nei confronti delle fasce più povere della popolazione ma al principio distributivo di premi e punizioni secondo criteri determinati in modo dirigista da un’autorità centrale. La riflessione su questo tema, che si svolge nel corso di tutta la sua carriera di studioso ma si concretizza specialmente in “Legge, legislazione e libertà” (scritto tra il 1973 e il 1979), è il risultato della confluenza delle teorie della scuola austriaca sul calcolo economico con l’approdo alla filosofia politica che caratterizza la fase matura dell’opera di Hayek (“La via della schiavitù” è del 1944, “La società libera” del 1960).

La critica hayekiana, figlia dell’empirismo liberale, unisce una dimensione cognitiva a una etica. Da una parte, esattamente come nel caso della pianificazione centralizzata, il tentativo redistributivo che sottende le concezioni contemporanee di giustizia sociale è destinato al fallimento, in quanto la dispersione delle conoscenze all’interno di una società complessa rende indisponibili a un singolo decisore le informazioni necessarie a rispondere alle esigenze della domanda associata. Se per Hayek il progresso è la possibilità di beneficiarsi delle conoscenze altrui, il principio secondo cui ciascuno dovrebbe ricevere “in base ai suoi bisogni” annulla alla radice il vantaggio competitivo offerto dalla divisione del lavoro, che è esattamente l’attuazione pratica della cooperazione spontanea tra individui portatori di competenze diverse. Il controllo dei processi sociali, compreso quello produttivo, è impossibile perché si tratta di fenomeni complessi che il singolo individuo (o gruppo) non è in grado governare. Allo stesso tempo un intervento dall’alto di carattere “riparatorio”, finalizzato a compensare non tanto le diseguaglianze frutto dell’abuso quanto i fattori differenziali derivati dalla natura, dall’origine sociale o dalle relazioni di libero scambio tra gli individui, finisce per introdurre un elemento distorsivo basato su criteri ideologicamente predeterminati, che riguardano non le categorie bisognose di speciale protezione ma l’intero corpo sociale. Quello di giustizia sociale non è quindi un concetto neutro ma un’aspirazione a modificare le regole del gioco a favore di determinati gruppi o categorie, aprendo la porta proprio alla discriminazione e all’arbitrio che in teoria si propone di combattere. Mirando a “pareggiare la partita” in realtà trucca la competizione, trattando la concorrenza e la libertà contrattuale come anomalie da superare in nome di un obiettivo finale identificato con il “bene comune”.

Mingardi fa bene a ricordare, contro ogni caricatura interessata, che il liberalismo di Hayek non è la dottrina della sopravvivenza del più forte o uno scenario di monadi isolate dal mondo ma piuttosto un contesto in cui gli individui, perseguendo l’interesse personale, cooperano e contribuiscono “alla realizzazione di qualcosa che è al di là della loro stessa visuale” (Adam Smith). La chiave, oltre all’assenza di coercizione del liberalismo classico (John Stuart Mill), è un insieme di norme condivise che creino le condizioni per la cooperazione: non è un vuoto istituzionale ciò che si persegue ma piuttosto un quadro di garanzie costituzionali che assicurino la certezza del diritto e proteggano la proprietà privata e le attività dei singoli. In poche parole, stato di diritto e democrazia liberale.
È questo il concetto di giustizia hayekiano, spogliato di qualsiasi attributo artificialmente compensatorio. È proprio il termine “sociale” che snatura il concetto di giustizia esponendolo all’arbitrio di una casta di amministratori di premi e castighi.

Non a caso i poteri coercitivi dello Stato vengono utilizzati dai decisori per dirigere il consenso attraverso il meccanismo di assegnazione dei privilegi, rivelando la natura politica dell’operazione redistributiva. Un abuso del linguaggio che diventa abuso di potere e minaccia di svuotare il significato unico della legge come garanzia della libertà individuale. Proprio come i sentieri di montagna si formano grazie all’iniziativa di chi li percorre e indicano il cammino a quelli che verranno, così le regole astratte della proprietà garantiscono la libertà in tutte le sue forme, contro ogni tentativo di tracciare una direzione precostituita. È la base dello scambio che Hayek propone ai governi occidentali alla fine della Seconda Guerra Mondiale: un minimo vitale per i meno abbienti vs. la fine di ogni vincolo corporativo, da cui scaturirà il surplus di ricchezza necessario a finanziarlo. Hayek è un pragmatico cosciente della necessità di una battaglia culturale: professa le sue convinzioni da eretico in un momento in cui prevalgono concezioni nazionaliste e socialiste della società. L’isolamento, sottolinea Mingardi, lo accompagnerà per tutta la vita: una sensazione che, facendo le debite proporzioni, molti liberali conoscono bene anche oggi.

La sua traiettoria di economista e filosofo gli consente di comprendere che qualsiasi attacco alla libertà economica ha ripercussioni immediate nella sfera politica. Il controllo e il condizionamento della libera iniziativa e dei suoi risultati produce sempre una compressione delle libertà personali; e quando l’opinione pubblica, in risposta ai fallimenti dello Stato, si ostina a chiedere un maggiore intervento, convinta dell’incapacità dell’individuo di prendere decisioni corrette sulla propria vita, la libertà agonizza (“La presunzione fatale”, 1988). Un ragionamento valido per tutte le stagioni e le declinazioni dello statalismo, compreso quello sanitario, che ha il merito di chiudere la questione della presunta divisibilità della dottrina liberale tra una componente politica (liberalismo) e una economica (liberismo), uno degli argomenti preferiti dei suoi detrattori: la libertà è una sola e come tale va preservata.

Ma i nemici della libertà sono dappertutto, avverte Hayek, e non si concentrano soltanto alle estremità dell’arco politico. Se il concetto di giustizia sociale è riuscito a permeare di sé le società occidentali si deve al fatto che è stato oggetto di predicazione (il termine non è usato a caso) non solo degli epigoni del socialismo ma anche tra i cosiddetti moderati, soprattutto quelli che si riconoscono nella dottrina sociale della Chiesa. Mingardi si sofferma opportunamente sulle posizioni del cattolicesimo ufficiale nel XX secolo a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII, mettendo in rilievo la continuità trasversale di un messaggio anti-capitalista che copre gran parte delle opzioni ideologiche alternative al liberalismo, con evidenti assonanze tra la visione corporativa promossa dal Vaticano e la società organica caratteristica dei regimi fascisti europei (la Carta del Lavoro del 1927 precede di soli 4 anni la pubblicazione della Quadragesimo Anno di Pio XI), passando per l’esperienza del nazionalismo cattolico di Perón in Argentina e incidentalmente anche per la matrice gesuita dei populismi latino-americani. Ciò che unisce tutte queste esperienze ideologiche è l’avversione al capitalismo – “un mondo innaturale, ingiusto, inumano, che deve essere superato” – e la ricerca di una terza via (in realtà sbilanciata verso il socialismo e il marxismo) che annulli i principi e le procedure della democrazia liberale, visti semplicemente come coperture formali al perpetuarsi delle diseguaglianze: un eterno ritorno alla falsa dicotomia tra democrazia formale e sostanziale che ha molto in comune con quella riproposta ultimamente tra libertà e tutela della salute. Secondo Hayek la giustizia sociale è una vera e propria “religione che sostituisce una promessa di giustizia temporale a una divina” contrapponendo alla “astrattezza procedurale del liberalismo” l’idea di società-meccanismo con un’autorità modellatrice al vertice: “si scrive giustizia, si legge gerarchia”. L’individuo e la sua libertà di scelta sono messi all’angolo.

Alla base della mentalità anti-capitalista c’è la premessa erronea (in realtà una manipolazione interessata) secondo la quale la povertà ha avuto origine dal capitalismo: in sostanza, secondo i promotori della giustizia sociale, la Rivoluzione Industriale avrebbe prodotto essa stessa le condizioni di sottosviluppo ed esclusione. Questo ragionamento omette il significativo dettaglio che nella società pre-industriale erano tutti più poveri e che proprio al processo capitalista vanno attribuiti il miglioramento generalizzato degli standard di vita della popolazione, la riduzione del costo di beni e servizi, la diminuzione drastica del tasso di mortalità e l’aumento spettacolare dell’aspettativa di vita grazie ai progressi della scienza e della tecnica. L’accento però ricade sempre sulle diseguaglianze che questa crescita avrebbe provocato, invece che sui benefici unici nella storia dell’umanità che ha contribuito a diffondere. Secondo la brillante definizione di Gertrude Himmelfarbm: “La povertà viene drammaticamente riscoperta proprio negli anni in cui i poveri stavano diventando meno poveri”. In discussione, osserva Mingardi, non è la povertà in sé ma il modo di produzione capitalista, accusato di sovvertire le tradizionali modalità di organizzazione dell’economia. E di fronte alla verità rivelata dell’ideologia non c’è contro-dimostrazione che tenga. Ma l’anti-liberalismo si nutre anche di un profondo malinteso sulla natura dell’economia di mercato, che rifiuta i concetti di giusto prezzo e giusto salario proprio perché rappresenta la negazione di una volontà superiore che la diriga e ne determini gli esiti. Il mercato non richiede interventi correttivi perché è in se stesso un processo continuo di correzione nell’allocazione delle risorse attraverso il sistema dei prezzi. I mercati non distribuiscono, nessuno decide cosa dare e cosa togliere, e non può essere ingiusto per il semplice fatto che non pretende di essere giusto.

È proprio il rifiuto di norme astratte comuni che permettano la cooperazione tra individui in una società complessa, unito all’idea che “premi e punizioni debbano essere distribuiti da un singolo centro decisionale”, a resuscitare nel mondo contemporaneo l’istinto tribale che caratterizzava le società pre-mercantiliste, dove tutto si risolveva all’interno di gruppi ristretti in cui si lavorava per un solo obiettivo comune. È qui che giustizia sociale, nazionalismo e socialismo si saldano in un solo grande magma illiberale, come sistemi ideologici che predicano il ritorno al gruppo chiuso, delimitato, controllabile e eterodiretto, dove non l’impersonale governo della legge (liberalismo) ma l’arbitrio personalisssimo dell’autorità (autoritarismo) governa i destini della società. Per Hayek la giustizia sociale trasforma la democrazia liberale in un ordinamento teleocratico, in cui a prevalere su tutto il resto è la gerarchia dei fini. Ma se è vero che “l’ingiustizia e la discriminazione sono ubique nella storia, la risposta più credibile è proprio il liberalismo perché riduce la discrezionalità del sovrano”.

Oggi è invece la logica identitaria, tribale appunto, il grande avversario delle liberaldemocrazie, con la sua ossessiva richiesta di riconoscimento e risarcimento che già Fukuyama evidenziava nel suo saggio “Identity” (2018). Logica trasversale – elemento costitutivo della nuova sinistra ma presente anche a destra, tra il popolo e nei circoli accademici e intellettuali – che trasforma lo stato di diritto in un terreno di scontro fra opposti gruppi di interesse e di incontro di ideologie collettiviste (nazionalismo e socialismo di ritorno) che puntano all’emarginazione dell’individuo, facendo leva su un conformismo sempre più soffocante. “I socialisti sono in tutti i partiti”, avvertiva Hayek; destra e sinistra sono ormai eserciti di “riparatori”, gli fa eco Mingardi.

Quel che è evidente è che il liberalismo è, oggi come allora, sotto assedio. E non semplicemente come dottrina ma nella sua essenza più profonda di quadro di riferimento all’interno del quale si sviluppano le diverse opzioni politiche. La tendenza all’espansione del potere pubblico, il paternalismo di Stato, la falsa alternativa tra libertà e sicurezza (o salute), la censura del linguaggio, l’abdicazione del sistema educativo a promuovere il pensiero indipendente, l’ignoranza diffusa della storia, la riduzione dell’informazione a meccanismo di propaganda e colpevolizzazione (la tribù, di nuovo), contribuiscono a ridurre gli spazi di libertà per far posto a una grottesca celebrazione del “trionfo della lungimiranza della società sulla grettezza dell’individuo”. Ormai l’abbiamo dimenticato, eppure è il potere statuale a dover essere controllato e limitato, non l’autonomia dei cittadini. Quella che Mario Vargas Llosa ha definito “la violenza ostetrica della giustizia sociale” è il pretesto perfetto per ammantare di moralità l’ennesimo esperimento dirigista volto a spegnere progressivamente la coscienza dell’occidente liberaldemocratico. Per Mingardi “l’assoluta incapacità della società umana più prospera della storia di accettare se stessa” è il più rilevante fatto politico del nostro tempo. Sottoscrivo, con una precisazione: non tutta la società è impegnata in questa deriva ma una sua parte consistente, chiaramente identificabile e capace di permeare di sé l’intero tessuto intellettuale e civile.

È tempo di resistere, dunque. La costruzione di una società libera è “un’avventura intellettuale, un atto di coraggio” per persone pronte a “tenersi salde ai principi e a battersi per la loro attuazione, per quanto remota essa sia” (“Gli intellettuali e il socialismo”, 1949). Una lezione senza tempo, quella di Hayek. Un libro importante, questo di Alberto Mingardi.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it

LA RIPARTENZA SI AVVICINA!

www.nicolaporro.it vorrebbe inviarti notifiche push per tenerti aggiornato sugli ultimi articoli