Cultura

Primavera di Praga: la repressione spense le illusioni dei “riformisti”

E mostrò una verità che gli europei dell’Est conoscevano da tempo, ma che molti occidentali ignorano ancora oggi: non esiste un comunismo dal volto umano

Primavera di Praga 1968

Nell’agosto del 1968, i carri armati del Patto di Varsavia e mezzo milione di militari uccisero la Primavera di Praga. Non fu, semplicemente, la fine di un ardito esperimento politico, ma anche una gigantesca sconfitta per il sogno di conciliare comunismo e democrazia. Il revisionismo marxista, lo sforzo teorico di riscoprire la dimensione umanistica e lo slancio emancipatorio della filosofia di Marx, subì un duro colpo.

Gli intellettuali

Milan Kundera, testimone diretto della repressione, nel 1981, in un intervento sugli effetti della Normalizace, disse:

L’invasione russa del 1968 ha spazzato via la generazione degli anni Sessanta, e con essa tutta la cultura moderna che l’ha preceduta. I nostri libri sono chiusi negli stessi sotterranei insieme a quelli di Kafka e dei surrealisti cechi. I vivi trasformati in morti stanno a fianco dei morti fatti morire due volte. Si cerchi di capirlo, una buona volta: non sono soltanto i diritti dell’uomo, la democrazia, la giustizia, ecc., che non esistono più a Praga. È un’intera grande cultura che a Praga oggi si trova “come un foglio di carta in fiamme dove scompare la poesia”.

Persino Jean-Paul Sartre, il filosofo esistenzialista che negli anni Cinquanta aveva taciuto la verità sui Gulag e spalleggiato Stalin, biasimò l’invasione definendola “socialismo venuto dal freddo”. Il comunismo leninista del filo spinato, della paura, del sospetto e della menzogna prendeva il sopravvento come in Ungheria nel 1956. I leader sovietici post-stalinisti si rifiutarono di consentire un’autentica democratizzazione e rimasero fedeli all’originaria autocrazia a partito unico. Una barzelletta di quei tempi catturò questa continuità: “Cosa sono le sopracciglia di Breznev? I baffi di Stalin a un livello superiore”.

Il riformismo di Dubcek

Il leader della Primavera di Praga fu Alexander Dubcek, un apparatchik comunista con propensioni riformiste. Eletto leader del Partito Comunista nel gennaio 1968, lanciò un ambizioso programma di rinnovamento. In pochi mesi molte istituzioni staliniste persero il loro potere. La censura venne abolita, gli intellettuali ricominciarono a scrivere e la società civile a parlare. Al Cremlino, guidato allora dallo sclerotico Leonid Brezhnev, vennero presi dal panico. Il rumeno Nicolae Ceausescu sostenne, opportunisticamente, Dubček con l’obiettivo di sfidare la centralità di Mosca nell’area sovietica.

Adottato nell’aprile 1968, il “Programma d’azione” dei comunisti cecoslovacchi si impegnava a porre fine alle politiche repressive e a costringere il Partito a un vero dialogo con i cittadini. Uno dei suoi principali autori, Zdenek Mlynar, aveva studiato legge a Mosca nei primi anni ’50, dove aveva condiviso il dormitorio con un giovane studente sovietico, un duro militante del Komsomol di nome Mikhail Gorbaciov. I due divennero amici intimi. Anni dopo, Gorbaciov avrebbe ripreso l’agenda della Primavera di Praga, sperando contro ogni speranza che il comunismo democratico potesse in qualche modo essere realizzato.

A giugno, lo scrittore Ludvik Vaculík pubblicò il manifesto delle Duemila Parole. Si trattava di un appello assoluto, esplicito e inequivocabile in favore del pluralismo politico. Milioni di persone lo sostennero, aspettandosi che presto emergesse un sistema multipartitico.

Repressione e normalizzazione

Mentre gli eventi si svolgevano a una velocità imprevista, i despoti neo-stalinisti dell’Europa orientale agirono preventivamente e schiacciarono la Primavera di Praga. Dubček e i suoi compagni furono arrestati, trasportati a Mosca e costretti a firmare un’umiliante capitolazione. Pochi mesi dopo, Dubcek fu espulso dal partito comunista. Seguì un congelamento della Cecoslovacchia che prese il nome di “normalizzazione”. Fu la normalità delle carceri, delle denunce, del terrore.

Nelle parole del poeta Louis Aragon, un altro ex stalinista pentito, il Paese divenne “un Biafra dello spirito”. Gli attivisti dell’opposizione vennero infangati, incarcerati e torturati. I ribelli agirono eroicamente nonostante le circostanze sfavorevoli, esibendo il “potere dei senza potere”.

Le illusioni dei riformisti

Poi, nel marzo 1985, Mikhail Gorbaciov arrivò al potere a Mosca. Convinto che il comunismo includesse una dimensione umanistica e che Stalin fosse stato un feroce traditore degli originali messaggi marxisti e leninisti, Gorbaciov tentò un’impossibile liberalizzazione del sistema sovietico causandone, però, il crollo.

Quali furono le illusioni che spinsero Gorbachev, ma anche Nagy e Dubček, a un tentativo di “umanizzare” il comunismo? In primo luogo, l’errata convinzione che il Partito Comunista, in quanto iniziatore delle riforme, avrebbe dovuto conservare un ruolo centrale nell’attuazione di quest’ultime.

In secondo luogo, che esistesse una via di mezzo tra la conservazione delle strutture staliniste e il loro completo abbattimento. Terzo, che si sarebbe potuto raggiungere una sorta di compromesso con gli esponenti del vecchio regime. Infine, quarto e ultimo errore, la certezza che la popolazione fosse pronta a sposare con entusiasmo il programma revisionista e ad appoggiare i nuovi leader nella loro frenetica ricerca di una modernizzazione. I revisionisti credevano, ingenuamente, nel loro presunto mandato popolare.

Ma questa logica era fondamentalmente errata. Il sistema non poteva tollerare cambiamenti strutturali. Nel caso dell’Unione Sovietica, invece dell’intervento straniero, Gorbaciov trovò di fronte a sé la cupa inerzia del colosso burocratico. Le sue esortazioni caddero sistematicamente nel vuoto. Tutta la società era afflitta da apatia e indifferenza.

Dubček e Gorbachev credevano fermamente nel comunismo. Solo un vero credente si sarebbe impegnato in un’azione così distruttiva sperando che vi fosse, tra i suoi sudditi, abbastanza lealtà verso il sistema da mantenere in vita il regime.

La verità

La repressione della Primavera di Praga fu giustificata come una difesa dell’internazionalismo socialista. In effetti, l’internazionalismo marxista altro non era che retorica vuota e ridicola, una maschera per l’imperialismo sovietico, l’abominio etico, la paralisi civica e il dominio burocratico. La Primavera di Praga dimostrò una verità che gli europei dell’Est conoscevano da tempo, ma che ancora molti occidentali ignorano: non esiste un comunismo dal volto umano.