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“Decreto ristori”, sempre peggio: nei fatti un’elemosina, nella teoria una concezione assistenzialista

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No, non ci siamo proprio, da nessun punto di vista. Il cosiddetto provvedimento per dare “ristoro” alle categorie danneggiate dalle ulteriori misure restrittive decise dal governo è inadeguato nei fatti tanto quanto appare distorto e pericoloso nella concezione della società che fa trasparire.

In termini di sostanza, di quantum, stiamo parlando di somme che non hanno alcuna seria chance di impedire la chiusura di centinaia di migliaia di attività. Poniamo che io sia un ristoratore con un fatturato annuo – in tempi normali – intorno ai 400 mila euro, con una decina di dipendenti, e con – adesso – il locale vuoto e la pressoché totale assenza di prenotazioni da qui a Capodanno. Se anche dovessero arrivarmi 4 mila euro una tantum, cosa mai potrei farci, se non usarli per pagare il commercialista affinché mi aiuti a organizzare in modo ordinato la cessazione della mia impresa?

Senza dire di quelle attività che, in base all’ultimo Dpcm, restano formalmente aperte, senza alcuna limitazione, ma saranno inevitabilmente colpite dal fatto che le città sono ridotte a scenari spettrali, e la propensione al consumo delle persone è stata letteralmente ammazzata. Se ho un negozio di abbigliamento o di scarpe, o se gestisco una concessionaria di automobili, come posso pensare di tirare avanti, nel momento in cui i ricavi attesi saranno incomparabilmente inferiori perfino al livello dei costi fissi che dovrò comunque sostenere?

Come si vede, da un punto di vista fattuale, siamo di fronte a un disastro, a un’autentica Caporetto. Ma non meno grave è il naufragio culturale che sta dietro a tutto questo, la concezione di società che il provvedimento governativo ci fa intravvedere.

Lontani come sono dall’idea di libera iniziativa, estranei come sono allo spirito imprenditoriale, all’intrapresa individuale, costoro pensano di cavarsela con una sorta di universalizzazione del reddito di cittadinanza, un sussidio qua e un cerotto là. È l’ora – anche da un punto di vista culturale – che una destra addormentata (e a sua volta confusa dal punto di vista della bussola ideale) inizi a riprendere confidenza con princìpi che dovrebbero essere fondamentali: la responsabilità individuale, l’autosufficienza, la non dipendenza da attori esterni (stato incluso: scritto minuscolo come suggeriva Luigi Einaudi), il fatto che tocchi in primo luogo ai genitori occuparsi di mettere il pane in tavola per i figli.

Si badi bene: questo approccio, cinicamente presentato da alcuni come punitivo, è in realtà la miglior difesa possibile contro i cattivi governanti. Perché dovrebbe impedire a priori al governo (a qualunque governo) di sequestrare la libera impresa, di ingabbiare ciò che non è dello stato né può appartenergli, di interferire con le nostre scelte private. Paghiamo le tasse affinché lo stato ci renda alcuni servizi, non affinché ci impedisca autoritativamente di guadagnarci un tozzo di pane.

Purtroppo l’impostazione non liberale della Costituzione vigente (altro che “la più bella del mondo”) non aiuta, laddove vincola e subordina l’iniziativa e la proprietà privata a fini sociali, funzioni sociali, utilità sociali, con ciò ponendo le basi per interventi autoritativi e illiberali. E tuttavia, pur dentro quella cornice, addolora (ma non sorprende) il silenzio e l’insensibilità delle più alte istituzioni della Repubblica rispetto a questi temi e a queste esigenze.

Le elemosine decise questa settimana sono del tutto insufficienti. Ma quand’anche – per assurdo – fossero state più corpose, non avrebbero risolto la questione di fondo che andrà prima o poi affrontata: il rapporto tra cittadino e stato, il tema della libertà, la sacralità (o invece la sacrificabilità, per l’Italia “ufficiale” di oggi) dell’avventura e dell’intrapresa personale e individuale.

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