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È ancora ricomponibile la frattura politica e culturale negli Stati Uniti o si va verso una secessione?

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Il ricorso del Texas respinto dalla Corte Suprema ha indotto alcuni autorevoli esponenti del mondo conservatore Usa a evocare la secessione. Ma è un malessere che viene da lontano. Con la sua recente copertina il Time ha celebrato Biden ed Harris per la loro capacità di cambiare la “narrazione dell’America”. Una nuova narrazione che però ha portato ad abbattere le statue e i cui sostenitori hanno fatto dell’intolleranza il loro segno distintivo, non concedendo diritto di cittadinanza morale a chi è portatore di valori differenti e si riconosce nel “contratto” dei Padri fondatori. Chi ha violato i termini del contratto originario? Il sole rischia di tramontare sopra la “città sulla collina”

Come prevedibile, venerdì 11 dicembre la Corte Suprema degli Stati Uniti ha bocciato l’esposto presentato dal Texas per annullare il risultato del voto in Wisconsin, Pennsylvania, Georgia e Michigan, affermando che il Texas non ha diritto a fare una richiesta del genere. “L’esposto dello Stato del Texas per chiedere il permesso di presentare una mozione per contestare il risultato del voto in altri Stati è negata per mancanza di legittimazione ai sensi dell’articolo III della Costituzione. Il Texas non ha infatti dimostrato un interesse giudizialmente valido nel modo in cui un altro Stato conduce le proprie elezioni. Tutte le altre mozioni pendenti sono archiviate di conseguenza”, ha scritto la Corte Suprema nella sua sentenza. In altre parole, la Corte ha ritenuto più corretto dare, come costituzionalmente previsto, una risposta di “diritto”, che entrare nello scivoloso campo del “merito”.

L’esposto appena respinto della procura di Austin era formalmente appoggiato da ben 17 stati: Alabama, Arkansas, Florida, Indiana, Kansas, Louisiana, Mississippi, Missouri, Montana, Nebraska, North Dakota, Oklahoma, South Carolina, South Dakota, Tennessee, Utah, e West Virginia. Altri 21 si erano altrettanto pronunciati contro l’esposto texano.

Il caso sarebbe chiuso se si trattasse solo dell’ennesima sconfitta di Trump e dei suoi sostenitori per via giudiziale. Alcune “autorevoli” reazioni alla sentenza hanno però dimostrato che il malessere americano ha radici profonde, che vanno ben oltre e che precedono di molto l’ultima contesa elettorale del novembre scorso.

Pochi minuti dopo la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha bocciato l’esposto presentato dal Texas è giunta la reazione di Allen West, il presidente del Partito Repubblicano del Texas. In un durissimo comunicato inviato alla stampa, dai contenuti volutamente speciosi, West arriva persino ad invocare la possibilità di una secessione del Texas dagli Stati Uniti:

“La Corte Suprema, rigettando l’esposto del Texas che è stato condiviso da altri 17 Stati e 106 membri del Congresso, ha decretato che uno Stato può prendere azioni incostituzionali e violare la propria legge elettorale […] Forse è arrivato il momento che gli Stati che rispettano la legge si uniscano assieme e formino una Unione di Stati che intendono rispettare la Costituzione. Il Partito Repubblicano del Texas rispetterà sempre la Costituzione e lo stato di diritto anche quando gli altri non lo faranno più”.

Le parole suonano come una provocazione ed una forzatura del diritto degli Stati, previsto dalla Costituzione, ma non vengono pronunciate da un “signor nessuno”: il presidente del partito di maggioranza del secondo stato americano per popolazione.

Sulla stessa linea d’onda, nello stesso giorno, il conduttore radiofonico conservatore Rush Limbaugh – di recente premiato da Trump con la prestigiosa Presidential Medal of Freedom – ha suggerito nel corso di un intervento alla radio che gli Stati Uniti si stanno muovendo verso la secessione degli Stati conservatori. Dopo che un radio ascoltatore ha chiamato chiedendo se la cultura americana sarà mai più dominata dal conservatorismo, il presentatore ha risposto affermando che il Paese si sta “muovendo verso la secessione”: “Non può andare avanti così”, ha continuato il presentatore radio. “Non può esserci coesistenza pacifica di due teorie della vita, due teorie del governo, due teorie di come gestire gli affari completamente differenti. Non possiamo andare avanti così a lungo senza che qualcuno decida di lasciare per strada”. I commenti di Limbaugh arrivano dopo che un deputato statale repubblicano del Mississippi aveva suggerito questa possibilità a seguito della vittoria del presidente eletto Joe Biden alle elezioni dello scorso mese. In un tweet, di seguito cancellato, il deputato Price Wallace (R) aveva scritto che il suo Stato doveva “secedere dall’Unione e diventare indipendente”.

Quanto sono concrete queste minacce? È presto per dirlo. È sicuro che la sola eco di quel lemma, pronunciato da autorevoli esponenti di una Nazione che visse – giusto 160 anni fa (20 dicembre 1860) – una tragica secessione che covava sotto la cenere da decenni, e che portò ad una sanguinosa guerra civile di quattro anni, e all’occupazione militare di parte di quel Paese per altri dodici anni, fa tremare i polsi.

Proprio la tradizione giuridica americana rende credibile il richiamo alla secessione. Non si deve dimenticare che il mondo anglosassone ha una visione fortemente “privatistica” e contrattualistica del diritto pubblico. Partendo da questo assunto, il “diritto di secedere” è una delle essenziali facoltà “prepolitiche” su cui si fondano i sistemi istituzionali; quindi, anche se non si trova esplicitamente menzionata nelle Costituzioni, rappresenta uno dei punti da cui partono e a cui ritornano le aggregazioni politiche. In altri termini “secessione” rappresenta anche il diritto di “stare con chi si vuole”. In fondo, nel diritto positivo, non esistono contratti perpetui e vincolanti in eterno. Vi è una contraddizione di fondo nella tradizione politica americana che appare quanto mai evidente in questi giorni. A fronte di un originario impianto liberale e, quindi, “individualista”, l’evoluzione della storia e delle istituzioni degli Stati Uniti è passata tramite il confronto e la mediazione tra “gruppi” e “sezionalismi”, alle volte impermeabili gli uni agli altri.

Quello del ricorso respinto dalla Corte Suprema è solo un pretesto per evidenziare un malessere che viene da distante.

Non avrebbe senso, qui in Italia, mettersi a parteggiare per una causa o per l’altra. È però necessario uno sforzo per capire cosa accade dall’altra parte dell’Oceano. Se vi sono istanze che rivendicano il diritto di secedere, cioè di rendere nullo un contratto che vincola all’unione uno o più stati, bisogna capire chi ha violato i termini del contratto originario. I primi decenni della Storia americana sono stati caratterizzati da una lunga serie di “compromessi”, alcuni riusciti, altri falliti, per regolare i rapporti tra le differenti anime del popolo americano. L’ultimo di questi fu quello del 1877, con il quale gli stati meridionali ritornarono pleno iure in seno all’Unione, temperato successivamente con emendamenti alla costituzione con i quali si affermarono i diritti della popolazione afroamericana e dei nativi. Da questa “tradizione” politica – fittizia come tutte le tradizioni, ma solida, per pratica – nacque la stessa narrazione del “mito americano”. Chi sostiene la necessità di una “secessione” affonda – nel bene come nel male – le proprie motivazioni in quel mito fondante. Essi hanno, quindi, una visione conservatrice, nel senso della continuità, della storia americana ed una spiccata (ovviamente per l’America) uniformità ideale ed etnica che, al massimo accetta l’antico assunto del “melting pot” così come venne descritto – prima ancora che il termine venisse coniato – da George Bancroft verso la fine del XIX secolo. Dall’altra parte vi è una galassia di genti e di personalità che – in parte – non possono riconoscersi nel “contratto” dei Padri fondatori, perché da esso furono esclusi e, quindi, vivono quei principi con ostilità. Un’altra parte ripudia quei principi, visti come un qualcosa di arcaico ed auspica che la storia diventi un processo in totale discontinuità con il passato.

Ne è testimonianza l’ultima copertina del Time Magazine, dove appaiono (e già questa è una assoluta anomalia rispetto al passato) il presidente ed il vicepresidente eletto come “persone dell’anno” per la capacità di cambiare la “narrazione dell’America”. È questa nuova narrazione che ha portato ad abbattere le statue dei generali confederati, senza che venisse ricordato che quelle statue (erette dopo il 1877) furono un contributo al ricompattarsi dei valori americani, compromessi dalla guerra civile. Così sul patibolo della “nuova narrazione” è stato portato il povero Cristoforo Colombo considerato un colonizzatore ed uno sterminatore di nativi e quindi indegno di essere un simbolo della storia americana. Fa sorridere che a decapitare le statue del grande navigatore non siano stati dei “nativi”, che un po’ di ragione l’avrebbero anche avuta, ma i pronipoti di quei colonizzatori che in modo differente attraversarono l’oceano da levante a ponente. Questi fatti non devono essere interpretati come carnevaleschi riot di annoiate popolazioni urbane, ma sono la manifestazione di una vera rivoluzione culturale, ancorché povera di veri contenuti. A questo si deve aggiungere che i sostenitori della “nuova narrazione” hanno fatto dell’intolleranza il loro segno distintivo e, di conseguenza, non concedono diritto di cittadinanza morale a chi è portatore di valori differenti.

Con questi reciproci presupposti il futuro della più grande democrazia dell’Occidente è fosco.

Jefferson, nel suo discorso di insediamento del 1801, disse: “Ogni diversità di opinione non è diversità di principi. Noi abbiamo assegnato nomi differenti a fratelli nati dallo stesso principio”. Oggi – più che mai – queste parole suonano splendide, ma distanti anni luce dall’America di questi anni.

Pare che il sole stia tramontando sopra la “città sulla collina”.