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Giustizia marcia: per “sciogliere” il Partito dei giudici non basta una riforma, bisogna cambiare paradigma al sistema

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L’autogoverno della magistratura ha fallito come principio: se le nomine e, quindi, la politica giudiziaria nel nostro Paese sono nelle mani di correnti politiche, veri e propri “partiti” di magistrati, tanto vale che siano i governi e i rappresentanti scelti dai cittadini ad esserne responsabili. Se la giustizia dev’essere “politicizzata”, almeno che lo sia in modo trasparente, senza opacità, per esplicito mandato elettorale…

È di immani proporzioni lo scandalo politico e istituzionale che sta emergendo dalle chat dell’ex membro del Csm ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara, una seconda ondata di intercettazioni, dopo quelle dell’anno scorso, pubblicate in questi giorni da alcuni quotidiani dopo la chiusura delle indagini della Procura di Perugia. L’uragano è arrivato a lambire con raffiche di vento e acqua alta persino il Quirinale, dove evidentemente si pensa che “ha da passa’ ‘a nuttata”, che il miglior modo per affrontare la tempesta sia acquattarsi in silenzio aspettando che passi. Dalle intercettazioni, come ha riportato il Giornale, emerge l’attivismo di Stefano Erbani, consigliere per la giustizia del presidente Mattarella (“non può imperversare così”, “decide tutto Erbani”, si sfogano i magistrati). Un altro consigliere di Mattarella, Gianfranco Astori, invitava Palamara (già non più membro del Csm, al Quirinale (“vogliamo fare da me al Q?”).

Il silenzio sembra la strategia preferita da Mattarella – che, non dimentichiamolo, è il presidente del Csm – per navigare in acque incerte. Assordante è il suo silenzio degli ultimi mesi, durante tutta l’emergenza coronavirus, mentre il presidente del Consiglio Conte assumeva ed esercitava i “pieni poteri” grazie a un decreto legge, firmato senza esitazione dal presidente Mattarella, che gli attribuiva carta bianca per disporre delle libertà fondamentali dei cittadini a colpi di Dpcm, atti amministrativi, non aventi forza di legge, quindi calpestando la Costituzione che prevede per quel genere di restrizioni una riserva di legge assoluta.

Lo scandalo non risparmia Via Arenula (di pochi giorni fa le dimissioni del capo di gabinetto del ministro Bonafede, Fulvio Baldi, di Unicost, più volte intercettato in conversazioni con Palamara sulle toghe da sponsorizzare), né i giornalisti – e non è un caso che le chat diffuse in questi giorni non le ritroviamo sui giornaloni mainstream, sempre pronti a offrire paginate di intercettazioni che riguardano i politici. Attorno a Palamara ruotavano infatti i più noti giornalisti di giudiziaria. In alcuni casi, ciò che emerge è una normale attività di cronisti a caccia di notizie e retroscena, ma in altri una vera e propria collusione per cercare di influenzare, condizionare gli eventi (“a te ti metto a Torino”, “no buona mettimi a Roma”), quando non una disponibilità a mettersi al servizio, rendersi strumento dei disegni di Palamara, sconfinando nell’attività di ufficio stampa.

Ma ciò che emerge in modo limpido, diremmo cristallino, da quelle chat e da quelle intercettazioni, è la spartizione dei posti di vertice degli uffici giudiziari e degli incarichi al Ministero della giustizia tra le correnti dell’Anm, non senza faide interne. Fazioni, trattative, manovre, pugnalate alle spalle, agganci politici, collusione con i giornalisti. C’è di tutto, pur di piazzare i propri uomini ai vertici delle procure, come mostrano le cene, e i dopocena, di Palamara con i renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, interessati non solo alla nomina di Ermini alla vicepresidenza del Csm ma anche al cambio al vertice della procura più ambita, quella di Roma (per competenze quella più “politica”), per il quale sostenevano il procuratore generale di Firenze Marcello Viola in discontinuità con l’uscente Pignatone.

E sappiamo che, dietro al velo di ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale, sono i capi delle procure, addirittura i singoli pubblici ministeri, a determinare la politica giudiziaria dei loro uffici, scegliendo su quali reati concentrarsi, a quali casi dare la precedenza e quali invece mettere su un binario morto.

Qui non ci interessa ergerci a giudici di questo o quel magistrato, politico o giornalista coinvolto, è l’elemento sistemico, strutturale, che ci preme mettere in luce. Sono almeno quarant’anni che va avanti così, che il Partito dei giudici imperversa nel Csm, pretendendo di farne la Terza Camera. Ricordate quando Cossiga raccontò di aver fatto circondare Palazzo dei Marescialli dai carabinieri, pronti a irrompere se il Consiglio non avesse tolto dall’ordine del giorno la minacciata “censura” a Craxi? Era il 1985…

Le tanto sbandierate autonomia e indipendenza della magistratura non sono che paraventi, dietro cui si celano in realtà arbitrio e irresponsabilità, un sistema opaco e corrotto (corruzione non è solo prendere soldi, ma anche deviare dal mandato del proprio ufficio) che nasconde agli occhi dei cittadini i meccanismi in base ai quali vengono decise nomine e assegnati incarichi, insomma i criteri che guidano l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese.

È un sistema che si vorrebbe governato dal principio dell’indipendenza della magistratura dal potere politico e da altri poteri, ma che al contrario è eterodiretto da cordate che non hanno alcuna legittimazione e che occupano i centri del potere giudiziario per avanzare le loro agende, il tutto lontano dallo sguardo dei cittadini e sottratto al controllo dei loro rappresentanti. Chi sono questi signori? Chi rappresentano? Che legittimità hanno per spartirsi questi posti?

Le frasi su Matteo Salvini – ma si potrebbe parlare molto a lungo della persecuzione giudiziaria subita da Silvio Berlusconi, culminata con la sua estromissione da Palazzo Chigi proprio negli anni in cui Palamara era presidente dell’Anm – sono solo la conferma di quanto è sotto gli occhi di tutti già da decenni, almeno da quel 1985 in cui il Csm aveva già messo nel mirino Craxi.

“Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando”, scriveva in chat Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, nell’agosto 2018: “Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’interno interviene perché questo non avvenga”. “Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo”, era la risposta di Palamara. “Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili”, insisteva Auriemma, mentre in un’altra chat Palamara si riferiva al ministro dell’interno con l’espressione “quella merda di Salvini”.

Vengono alla mente i messaggi da cui è emerso il bias anti-Trump degli agenti FBI che condussero l’indagine sul Russiagate, solo che Palamara non era un agente di polizia ma il leader di un intero “partito” di magistrati…

C’è in questi giorni chi propone questa o quella riforma del Csm (il sorteggio o i collegi uninominali), per combattere, si dice, la deriva del correntismo. I più arditi sognano lo scioglimento dell’Anm. Ma occorre dirselo, questi non sono che pannicelli caldi. Mettersi a parlare di riforma del Csm non significa altro, consapevoli o meno, che aspettare che passi la tempesta. Le chat divulgate in questi giorni non sono che un’appendice di quanto emerse dall’indagine di Perugia già un anno fa. Da allora ad oggi si sarebbe potuto già avviare un percorso di riforma, se ci fosse stata la volontà politica. Ma se questa maggioranza è già troppo debole per restare attaccata alle poltrone ed evitare un ritorno anticipato al voto, figuriamoci solo parlare di riforma della magistratura. E d’altra parte, lo scorso anno lo stesso presidente Mattarella ritenne la pratica chiusa con le dimissioni, chieste e ottenute, dei componenti del Csm coinvolti (ben cinque). Ce n’è, e ce n’era abbastanza, per esercitare la sua così spesso invocata “moral suasion” per azioni più incisive e obiettivi più ambiziosi. E i poteri costituzionali – come il messaggio alle Camere – certo non gli mancano.

No, ad aver fallito è il principio stesso dell’autogoverno della magistratura: se le nomine e, quindi, la politica giudiziaria nel nostro Paese sono nelle mani di correnti politiche, veri e propri “partiti” di magistrati che usano il loro ufficio per perseguire una precisa agenda, tanto vale che siano le istituzioni politiche scelte dai cittadini ad occuparsene e ad averne la responsabilità, alla luce del sole.

Questo sistema non ha bisogno di una riforma, ma di un azzeramento, di un capovolgimento totale di paradigma. Con i suoi pregi e difetti, il sistema americano è certamente più trasparente, laddove chi nomina i giudici e chi sceglie i procuratori è univocamente individuato e le sue scelte sono sottoposte al duplice vaglio dei rappresentanti del popolo e della opinione pubblica. Se la giustizia dev’essere “politicizzata”, almeno che lo sia in modo trasparente, senza opacità, per esplicito mandato elettorale…

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