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Grande Centro, un grande equivoco e un grande rischio: sigillare il commissariamento

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Dopo la settimana di terremoto che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella le ultime trattative vedono come oggetto la nuova terra promessa della politica italiana: il centro. Un’area moderata e defilata dalle dinamiche del bipolarismo.

Le due coalizioni sono in frantumi e da giorni si assiste all’inaugurazione di un grande progetto centrista: la nuova Dc , la nuova Margherita, la nuova Forza Italia e chi più ne ha più ne metta. Dopo trent’anni di bipolarismo i “moderati” cercano di farsi spazio e la situazione parlamentare, per una volta, gioca a loro favore. L’Esecutivo non è destinato a durare molto, l’emergenza sanitaria non è eterna e i partiti, con uno sguardo attento alle elezioni politiche, cominciano a guardarsi intorno.

L’obiettivo è quello di formare un centro moderato, un terzo polo indipendente dal centrodestra e dal centrosinistra. Il nuovo gruppo, nato al Senato dall’unione di Italia Viva, Coraggio Italia e Noi Campani va verso questa direzione. Un progetto promosso da Matteo Renzi, Giovanni Toti e Clemente Mastella a cui si potrebbe aggiungere un’ala del Movimento 5 Stelle, quella guidata da Luigi Di Maio, e parte di Forza Italia.

Il cantiere del Grande Centro, inaugurato la scorsa settimana al Senato, porta con sé un grande equivoco e contemporaneamente un enorme rischio per la nostra democrazia.

Partiamo dall’equivoco. L’operazione centrista prevede un piano confuso e, senza dubbio, con pochi precedenti. Innanzitutto, presuppone una legge elettorale proporzionale, senza la quale le ambizioni moderate rimarrebbero solo sogni. In secondo luogo, data la sua composizione eterogenea, il partito in sé avrebbe poco riscontro elettorale e il rischio di figuracce è dietro l’angolo. Le previsioni, forse troppo ottimistiche delle scorse settimane, lo vedono lanciato verso il 15 per cento nei sondaggi, ma in questi casi la somma reale risulta poi sempre inferiore al totale dei sondaggi.

Stiamo parlando di partiti che attualmente arrivano a mala pena al 2 per cento e ancor prima di iniziare alcuni protagonisti hanno prematuramente abbandonato il progetto. Carlo Calenda, leader di Azione, si è prontamente defilato e le prossime elezioni politiche lo vedranno a braccetto con +Europa ed estraneo al teorico partito centrista. Risalta così la debolezza di un progetto politico senza fondamenta culturali e privo di un qualsiasi sostegno da parte dei cittadini italiani, poco interessati alle deboli alleanze centriste e al cosiddetto polo moderato. Una condizione di pericolosa autoreferenzialità, che si gioca in un dibattito che appassiona politici e addetti ai lavori ma che probabilmente lascia freddi e disinteressati gli elettori. Un equivoco non di poco conto per un partito che, sondaggi alla mano, dovrebbe fare da ago della bilancia delle prossime elezioni politiche.

Perché allora battersi per un progetto così fragile e inseguire una soluzione di alleanze poco efficiente sia sul piano politico sia sul fronte elettorale?

La risposta al quesito ci porta ad affrontare l’enorme rischio che questo progetto porta con sé: il rischio di un commissariamento, questa volta reale, della politica. Un esito che rappresenterebbe una macchia indelebile per la nostra democrazia parlamentare.

L’unico perno che può tenere insieme l’eterogeneità di questo progetto è l’attuale presidente del Consiglio e i primi a riconoscerlo sono i partiti stessi. L’obiettivo, infatti, non è quello di creare un nuovo partito e sfruttare l’immagine di Draghi come presunto federatore in campagna elettorale, bensì quello di chiedere all’ex numero uno della Bce di subordinare le sue ambizioni personali e continuare la sua opera a Palazzo Chigi. Attuare così le riforme (incluso il Pnrr) oltre la scadenza naturale della legislatura, oltre le prossime elezioni politiche e quindi oltre il 2023. 

Il rischio è un corto circuito istituzionale che tradurrebbe in realtà il più volte citato rischio di commissariamento della politica. L’ennesimo segno di debolezza di una politica che fatica a trovare una propria identità. Un altro sintomo della crisi dei partiti, sempre più distanti dagli elettori e sempre più restii a sviluppare una propria linea programmatica fondata su idee e principi. A confrontarsi democraticamente, a competere a suon di proposte e non attraverso alleanze cieche e di corto respiro.

Il tono duro e freddo, con il quale da Mario Draghi nell’ultima conferenza stampa ha perentoriamente escluso un suo impegno politico futuro non deve ingannarci. Nulla gli vieta di sfruttare la debolezza strutturale dei partiti e l’assenza di vere alleanze per riproporsi come garante dell’unita nazionale. Sfruttare la crisi, questa volta partitica e non sanitaria, per superare le elezioni, oltrepassare la volontà elettorale dei cittadini e reimporre una guida tecnica a Palazzo Chigi.

L’immagine e il futuro politico di Draghi non possono essere il nucleo portante di un’alleanza politica. È importante, per tutti i partiti italiani, delineare un’agenda per le prossime elezioni, determinare con chiarezza le proprie posizioni e instaurare un rapporto di reciproca fiducia con l’elettorato. Dimostrandosi all’altezza di riprendere in mano la guida del Paese. Il commissariamento della politica, di cui si lamentano, lo devono contrastare in primo luogo i partiti, non favorirlo.

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