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I mercati cominciano a non fidarsi del “racconto” della Bce. E Draghi non basterà a proteggerci

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Nell’ultimo Comitato direttivo, la Banca centrale europea (Bce) ci consegna uno scenario sempre più complicato e quattro conferme, una delle quali pesa seriamente sul futuro dell’Italia. E da queste, e dalla situazione politica italiana disegnata dal presidente del Consiglio, dalle future decisioni europee sulle quali Draghi non sembra assolutamente influire, contrariamente alle attese, non possiamo trarre buone conclusioni.

La prima conferma: “Ci vuole tempo”, l’inflazione non è transitoria: durerà tutto il 2022 – La Presidente Lagarde nella sua nota introduttiva, parlando di inflazione, omette una parola chiave ripetuta nelle ultime conferenze stampa: “transitoria”. Immediatamente i mercati reagiscono: il decennale tedesco viene venduto perdendo quasi l’1 per cento,   migliorando il suo rendimento (negativo) da -0.17 per cento a -0.11 per cento. Rammentiamo che se una obbligazione viene venduta il suo rendimento sale e viceversa. La vendita del debito di una nazione rappresenta un segno di debolezza e, se protratto nel tempo, di minor fiducia.

La reazione del mercato – seppur limitata – è significativa. Esso ha avuto conferma di ciò che da qualche mese pensava: il racconto della Bce non è più credibile. Il suo mandato politico è – contrariamente alla stragrande maggioranza delle banche centrali – incentrato solo sulla stabilità dei prezzi, impostato secondo i desideri della Germania. Ed è politicamente interessante che la stessa Lagarde, in risposta ad una domanda, lo abbia confermato più volte con una   naïveté che non sappiamo se voluta – a compiacere Berlino – o per naturale osservanza a Rue de la Loi e alla istituzione che presiede. Forse ex post, e riflettendo sull’economia sociale di mercato tedesca,  è possibile pensare – ma è solo una nostra ipotesi – che non sia casuale non avere incluso la piena occupazione nel mandato.

Da una prospettiva molto più pratica, rammentiamo poi che per i detentori di debito, siano questi risparmiatori o istituzioni, quel che rileva sono i tassi di rendimento reali. Al momento attuale, prendendo ad esempio la Germania, il rendimento reale dell’obbligazione decennale è peggiore del -3,5 per cento medio. Con una inflazione in Eurozona al 3.5 per cento, in aumento e con prospettive di persistenza, lo scenario si fa complicato (va ricordato che altre economie offrono un debito con una comparabile sicurezza ma rendimenti reali leggermente migliori.

La seconda conferma: “Ne siamo certi”, l’inflazione accelererà nel 2022 (per poi rallentare) – Abbiamo parlato di conferme, perché queste ci si attendeva. Posto che essendo chiare le determinanti, non risolvendosi e aggravandosi queste – segnatamente quella di maggior peso sull’inflazione ovvero l’energia – non era azzardato dedurre che la pressione sui prezzi non poteva risolversi in un evento temporaneo, come – sommessamente – scritto insieme ad altri, commentando a marzo le dichiarazioni del governatore della Federal Reserve Jerome Powell. Lagarde conferma che: “ci vuole tempo” e che il rientro verso valori inferiori al 2 per cento di riferimento avverrà entro la fine dell’anno 2022, presumibilmente nel terzo o quarto trimestre.

Di Lagarde si ricorda il “non siamo qui per chiudere gli spread“, ora forse si aggiungerà il “ci vuole tempo”. Le riaperture e la violenta ripresa dei consumi all’interno di una catena del valore e produttiva alterata hanno provocato un décalage tra domanda e offerta: ovvero se di inflazione ci si occupa è perché in buona parte generata da una domanda molto maggiore di quanto l’offerta possa soddisfare. E l’offerta non è a livello per la scarsità di materie, macchinari e lavoro. La “disruption” è sostanzialmente ad ogni livello legata all’approvigionamento, dalle materie prime che non possono essere trasportate da punto a punto per mancanza di vascelli. E per aumentare le capacità di trasporto è necessario attendere che nuovi siano prodotti e soprattutto consegnati; nel contempo i costi dei noli aumentano ai massimi storici. Costi e scarsità si scaricano sui prezzi al consumo, ma prima su quelli al produttore: l’ultima lettura sull’aumento dei prezzi “producers” in Germania è stata del 12 per cento rispetto allo stesso periodo e di un aumento dei prezzi al consumo del 4,5 per cento. La differenza tra i due valori si trasferirà sui prezzi al dettaglio ancorché solo parzialmente.

A questo si aggiunge a il costo dell’energia. Il raddoppio del prezzo del greggio (e molto di più del gas naturale) in uno spazio temporale di dodici mesi è dovuto forse più a riduzioni della produzione che per aumento della domanda e per fattori politici o normativi. In Cina la domanda di carbone – soprattutto per la produzione di energia elettrica – è ai  massimi e questo fa avvitare verso l’alto i prezzi, all’interno di una generalizzata dinamica di crescita delle materie prime, dei metalli di base e non.

Quanto all’energia, dall’altro lato dell’oceano si suppone che saranno proprio i prezzi elevati a risolvere il problema riportando le società di shale-gas nelle condizioni di poter operare e stimolando l’apertura di nuove estrazioni per le società tradizionali. Il processo è virtuoso – a dispetto degli eccessi ecologisti: aumenta la produzione e l’offerta e diminuiscono – molto probabilmente – i prezzi.

In Europa tuttavia lo scenario è differente, pesando in maniera molto importante i costi dei certificati Co2, la totale dipendenza da fonti estere e le norme del pacchetto “Fit for 55”. Con molta naturalezza e un po’ di superficialità, Lagarde ha risolto il problema evocando una stabilizzazione dei prezzi,  che a nostro parere riguarderà in maniera molto più marginale l’Ue rispetto ad altre economie.

Resta un punto rilevante: il lavoro ed il suo costo. Già da luglio Lagarde si augurava che le dinamiche del costo del lavoro, e le relative negoziazioni, restassero invariate. Dalla prospettiva del banchiere centrale, infatti, il costo del lavoro è una delle maggiori determinanti nella persistenza dell’inflazione. Molto meno comprensibile la sua posizione se vista dalla prospettiva dei lavoratori, reduci oltretutto da una inaccettabile compressione dei salari in stile Hartz.

La terza conferma: “Non aumenteremo i tassi, nessun liftoff”. Ma i primi a non crederlo sono i mercati – Lagarde esclude un aumento dei tassi nel 2022 e rimanda al 2023. Ritiene che le condizioni complessive (i fondamentali economici) e le analisi di Bce non giustifichino un rialzo “nei tempi attesi dai mercati”. Sommessamente, ci pare di scorgere nelle affermazioni di Francoforte uno strano “loop” logico, la medesima circolarità che vedono i mercati e che molto più concretamente prezzano implicitamente sul mercato monetario ESTER due aumenti: a giugno e settembre 2022 e ognuno di 10 punti base.

In chiaro: i mercati non ritengono che le determinanti dell’inflazione possano risolversi rapidamente: e se così fosse, altro non resta alla Bce che la leva dei tassi a contenere un aumento dei prezzi che rischia di essere persistente; vale rammentare che si è passati da inflazione negativa del -0,4 per cento ad agosto 2020 ad un +3.5 per cento attuale con dinamiche nazionali ben maggiori (+4.5 per cento in Germania), seppur a causa di un evento fuori scala quale il Covid-19. Una escursione di 4,9-4,5 punti percentuali: dal negativo al positivo, il doppio rispetto all’obiettivo della Bce e mai raggiunto in oltre dieci anni. Lagarde invece pensa – a ragione – che la ripresa vada sostenuta e soprattutto mantenuta: un aumento dei tassi rischierebbe di non consolidare i livelli di quella crescita che Lagarde prevede tornare a livelli pre-pandemia già alla fine del 2021. E alla domanda – invero assai di tendenza – sul rischio di stagflazione risponde correttamente: non siamo in stagnazione e quindi non v’è rischio di stagflazione.

La quarta conferma: “Il PEPP termina come stabilito a marzo 2022”; “discuteremo la politica del dopo PEPP a dicembre” – Ad aprile Jens Weidemann rammentò che “la P di PEPP sta per Pandemic non per Perpetuo”. Il messaggio dell’ex banchiere centrale della Bundesbank era chiaro: non saranno ammesse proroghe. E Lagarde ha confermato che il Pandemic Emergency Purchase Program e la sua dotazione di 1.850 miliardi di euro iniziato il 24 marzo 2020 terminerà come da programma a fine marzo 2022. 

Il PEPP è una delle diverse “facilities” iniziate da Draghi nel 2012 con il ”LTRO”, proseguite sino all’iniziale “APP” del 2015 e ancora in essere, che compongono il Quantitative Easing europeo – il programma di politica monetaria speciale – e le altre operazioni di liquidità in essere in Bce. Con questo programma la Bce compra, in maniera variabile, debito pubblico dell’Eurozona derogando, o meglio rendendo flessibile, la regola del Capital Key, ovvero di quanto sia azionista della Bce ogni nazione. Per l’Italia il valore è del 17 per cento e in condizioni normali rappresenta la soglia di acquisti massimi. Con l’avvento del programma pandemico la regola è stata resa più flessibile e dal marzo 2020 la Bce compra di volta in volta debito italiano ampiamente oltre il 17 per cento dei propri acquisti complessivi di programma, sostenendone così corsi e collocazione. In sintesi: con il PEPP la BCE opera come qualsiasi banca centrale, facendo gli interessi di ogni nazione con moneta Euro.

Se fra due mesi non interverranno diverse decisioni, da aprile 2022, con la fine del programma, la situazione che ci si presenterà sarà oltre che ignota molto seria, anche se è già previsto un certo ampliamento del programma APP a riequilibrare.

Come sempre sostenuto e contrariamente alla vulgata, è la Bce a controllare, per esempio, il differenziale di rendimento tra un titolo italiano e il benchmark Ue (tedesco), quello che comunemente si chiama spread e che rappresenta, semplicemente, il maggiore o minore rischio che il mercato assegna ad un debito sovrano. Come è la presenza della Bce ad agevolare, con i suoi acquisti, che nei collocamenti il tasso sia mantenuto basso. Il programma, inoltre, consente di comprimere e annullare speculazioni sul debito italiano.

Ciò detto appare ovvio che, in assenza di Bce, ci si presenterà il peggior scenario immaginabile. La sostenibilità del debito pubblico italiano (non solo ovviamente le sue dimensioni, che con il Next Generation EU saranno ulteriormente aumentate) è quel che preoccupa, oltre al ripristino delle regole europee di bilancio prudente, sino ad ora sospese e di cui l’Ue non avverte alcuna urgenza anche solo di iniziare il percorso di modifica.

La conclusione è inevitabilmente una nota politica. Chi in Parlamento ha pensato che un governo presieduto da una figura autorevole in campo finanziario, e molto gradita in Europa, potesse risolvere i problemi centrali dell’Italia, dovrà con molta probabilità rivedere la sua posizione. Ma, se nulla cambia, sarà troppo tardi.

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