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Il caso Craxi è più che mai aperto: i suoi nemici avevano torto e la storia è ancora da scrivere

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Il ventesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi ha riaperto un dibattito che era finito su un binario morto. La condanna morale inflittagli negli anni di Mani Pulite sembrava definitiva. Ma fortunatamente, con il passare del tempo, è iniziata una seria rivalutazione della sua figura. Ripercorrere storicamente la sua vicenda può dunque aiutare a comprendere le ragioni per cui il leader socialista deve essere ricordato. Un ricordo che non deve essere un’acritica celebrazione, né una brutale demonizzazione. Perché Craxi, come tutti i personaggi storici, ebbe i suoi chiari e i suoi scuri.

La sua carriera politica, iniziata tra Milano e Sesto San Giovanni, venne fortemente influenzata da Pietro Nenni, il capo della corrente autonomista del Psi. Al suo fianco il giovane Bettino maturò un forte sentimento autonomista, affiancato da un profondo anticomunismo derivante dai suoi viaggi nell’Europa dell’Est. Questi orientamenti emersero con chiarezza quando divenne segretario del partito nel 1976. Dopo la svolta del Midas, il giovane Craxi iniziò ad impostare un percorso politico chiaro che mirava all’autonomia politica del Psi. Affiancato dagli intellettuali della rivista teorica Mondoperaio iniziò subito a mettere in discussione i dogmi del comunismo. Una battaglia culturale e politica cruciale che, nel corso dei primi anni Ottanta, portò il Psi ad emanciparsi dal marxismo-leninismo imperante nella sinistra italiana. E che permise ai socialisti di approdare al riformismo, cioè ad un approccio graduale alla riforma dello Stato che escludeva il percorso rivoluzionario. In sintesi, il Psi accettò quello che veniva definito Stato borghese e si impegnò per innovarlo. E mentre Berlinguer e i comunisti guardavano a Lenin, Craxi apriva il dibattito sulla grande riforma delle istituzioni per rendere gli esecutivi più stabili ed efficaci. La grande riforma, sviluppata nel corso della sua segreteria, prevedeva il rafforzamento dell’esecutivo, il superamento del bicameralismo perfetto, la riforma elettorale e la riduzione delle tendenze assemblearistiche che avevano colpito il Parlamento. Temi quanto mai attuali, ma che tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta rappresentavano una novità dirompente. Ma le intuizioni di Craxi non si limitano all’approccio riformista, perché egli seppe sintonizzarsi con i cambiamenti del Paese. Si pensi alla terziarizzazione dell’economia e ai nuovi professionisti del mondo delle telecomunicazioni, della moda e del design che vennero abilmente intercettati e rappresentati dal leader socialista.

Malgrado queste notevoli intuizioni egli non riuscì a portare a compimento il progetto che aveva promosso. Pur avendo smosso le fondamenta della Repubblica dei partiti, ne rimase travolto dal crollo.

Come detto, la sua svolta autonomista si sviluppò sul fronte politico-culturale ma anche sul fronte finanziario. Craxi capì fin da subito che per dare forza al suo Psi, un partito medio circondato da due giganti quali il Partito comunista e la Democrazia cristiana, avrebbe dovuto avere la più ampia libertà di manovra. E non la si poteva ottenere se si dipendeva finanziariamente da uno dei due. Autonomia politica significava dunque autonomia finanziaria. Per questo, con una mossa spregiudicata ma politicamente comprensibile, ampliò i canali di finanziamento illecito al Psi.

Tale scelta, almeno in una prima fase, fu fruttuosa perché grazie al potere di ricatto ottenuto, Craxi diventò presidente del Consiglio, dando vita al governo più duraturo della storia della Prima Repubblica (agosto 1983-marzo 1987). Raggiungendo alcuni risultati di tutto rispetto: una notevole crescita del Pil, la discesa dell’inflazione e la riforma del Concordato tra Stato e Chiesa. Ma dal 1987, lasciato Palazzo Chigi, le sue sorti iniziarono a declinare. Probabilmente per un rapporto troppo stretto con la Democrazia cristiana che annebbiò la sua capacità strategica (si pensi al patto della staffetta con De Mita) e poi per l’incancrenirsi delle dinamiche del finanziamento illecito che non di rado sfociarono nella corruzione. Senza dimenticare la mancata crescita elettorale. Dopo quasi quattro anni di governo il Psi raggiunse solo il 14,3 per cento.

Nonostante queste difficoltà, la caduta del Muro di Berlino rivelò che le sue analisi erano fondate. Il crollo del comunismo diede insomma ragione a Craxi e torto ai comunisti che per lungo tempo avevano considerato il riformismo un’eresia. Tuttavia fece venire anche meno il collante dell’anticomunismo che aveva saldato coalizioni piuttosto eterogenee e aveva fatto ingoiare diversi rospi ad un elettorato sempre più inquieto.

La caduta del Muro e l’avanzamento del processo di integrazione europea accelerarono così la crisi di rappresentanza degli anni Ottanta, che si era manifestata con un crescente calo di partecipazione, con una crescente sfiducia nei partiti e poi con l’avvento delle Leghe, confluite nella Lega Nord. Craxi in questa fase si mise sulla difensiva con una parte della Dc, convinto che tali tensioni si sarebbero facilmente riassorbite. Non riuscendo a comprendere i cambiamenti in atto ne rimase travolto. Nel 1991, infatti, si oppose tenacemente al referendum sulla preferenza unica voluto da Mario Segni, che lo trasformò gradualmente nell’emblema della partitocrazia. Ma solo le inchieste di Mani Pulite, che scoperchiarono le dinamiche del finanziamento illecito e della corruzione, gli avrebbero dato il colpo di grazia. Il potente circuito mediatico-giudiziario avviato tra il 1992-1994, spalleggiato degli ex comunisti che cercavano di farsi spazio tra le macerie del Muro di Berlino, gli fu fatale. Individuato come antieroe della rivoluzione giudiziaria venne trasformato in breve nel capro espiatorio di un’intera stagione politica e demonizzato. Una demonizzazione alimentata da buona parte dei media, che non gli risparmiarono nulla, creando quel clima infame che avrebbe portato al linciaggio del Raphaël e che lo avrebbe costretto a riparare ad Hammamet.

A vent’anni di distanza, svanite le passioni politiche dell’epoca, sarebbe davvero auspicabile un serio dibattito storico-politico sulla sua figura. Sine ira ac studio, come avrebbe detto il grande Tacito.

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