Quella iraniana nella regione mediorientale è solo una vittoria apparente, ma non significa che si risolverà in una sconfitta
Apparentemente, tra i vincitori del caos mediorientale, oltre a Erdogan e Putin, c’è l’Iran di Khamenei e dei Pasdaran. In questi anni, grazie a decine di milizie paramilitari e ai Pasdaran direttamente impegnati sul campo, Teheran è stato capace di imporre la sua presenza in Iraq, Siria e Yemen, a cui va aggiunta quella trentennale in Libano.
La Repubblica Islamica, nata nel nome della liberazione dal colonialismo, non ha ovviamente giustificato queste azioni per quello che erano, ovvero puro imperialismo impregnato di un mix di nazionalismo e islamismo. No: Teheran ha giustificato queste azioni come necessaria per proteggere l’asse della resistenza, in guerra contro Isis e contro il Grande e Piccolo Satana, ovvero Stati Uniti e Israele.
Ma la propaganda si può vendere sulle agenzie di stampa, si può vendere a politici occidentali progressisti assai ignoranti, ma difficilmente si può vendere per sempre alla gente comune, quella che quotidianamente vive sulla propria pelle il dramma della corruzione, della repressione e del mal governo. Ed è esattamente quello che è accaduto in questi mesi prima in Iran, poi in Iraq e ora in Libano.
Già, perchè i primi a protestare contro il regime iraniano, come spesso accade, sono stati proprio gli iraniani che, al grido “No Gaza, no Libano, la mia vita solo per l’Iran”, hanno protestato contro la disoccupazione, contro l’eccessiva presenza dei Pasdaran nella finanza e contro il costo delle “missioni militari” di Teheran fuori dai propri confini. Purtroppo, nel quasi silenzio occidentale, le proteste sono state represse nel sangue e decine di attiviste e attivisti coraggiosi sono stati condannati con l’accusa di rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale. Ad ogni modo, queste proteste, unite alle pesanti sanzioni americane, hanno costretto l’Iran a tagliare di netto il suo budget per la difesa, compreso quello che direttamente va nelle casse dei Pasdaran.
Gli effetti sono arrivati a catena, anche sui proxy di Teheran nella regione mediorientale. Tagli ai finanziamenti ci sono stati per i miliziani filo iraniani in Iraq, per Hezbollah in Libano e per lo stesso Hamas a Gaza. Ovviamente, tagliati i soldi, è finito quel famoso metodo di cooptazione che in Occidente abbiamo tradotto come “no taxation without representation”. Allargata l’analisi, qui si potrebbe dire che si è rotto il meccanismo del pagare salari a dei disperati, per ottenere non solo la loro vita nel nome della difesa di qualche dittatore locale (come Assad), ma anche per comprare il consenso, chiudendo gli occhi davanti a pratiche clientelari, corrotte e mafiose.
Ecco allora che in Iraq a scendere in piazza contro il Governo di al-Mahadi non sono stati solo i sunniti, ma anche e soprattutto gli sciiti, che hanno duramente protestato contro Baghdad, chiedendo non solo pane e lavoro, ma anche la fine dell’interferenza iraniana nel loro Paese. Sciiti che, nonostante tutti i tentativi di cooptazione da parte di Teheran, sono rimasti fedeli all’anziano Ayatollah al-Sistani, da sempre oppositore del khomenismo.
Ora il Libano: ovviamente, non è la prima volta che gli sciiti libanesi protestano contro il governo centrale. Ma questa volta c’è una netta differenza: in quel Governo c’è direttamente Hezbollah, tanto che lo stesso Nasrallah, pur chiedendo riforme, si è schierato contro le dimissioni di Saad Hariri. Per la prima volta, gli sciiti di Tiro, Nabatieh e Tripoli, non hanno gridato slogan solamente contro i leader sunniti, ma anche direttamente contro il segretario di Hezbollah. Questo rivolgimento, è il frutto diretto del taglio dei finanziamenti di Teheran a Hezbollah, del costo del coinvolgimento del Partito di Dio in Siria e dell’alleanza fatta da Hezbollah con vecchi arnesi della politica libanese come Nabih Berri, speaker del Parlamento dal 1992 e considerato tra i personaggi più corrotti del sistema di potere libanese.
Sottolineare il fatto che quella iraniana nella regione mediorientale è solo una vittoria apparente, non significa essere certi che si risolverà in una sconfitta. Prima di ritirarsi, il regime iraniano non si farà problemi a usare la forza – direttamente (come in Iraq) o indirettamente (come in Libano) – per garantire i suoi asset restino al comando. Sta a chi si oppone a Teheran, mettere in atto una strategia chiara di reazione: se l’effetto del mezzo ritiro americano dalla Siria è stato certamente pessimo, è un dato di fatto che le sanzioni di Trump all’Iran stanno funzionando. E allora è necessario unirsi in questo senso e isolare economicamente la Repubblica Islamica il più possibile. Ciò vale soprattutto in vista della data fatidica dell’ottobre 2020, data in cui verranno meno le sanzioni Onu che impongono – almeno teoricamente – un embargo militare verso la Repubblica Islamica. Un embargo che deve essere rinnovato, anche per impedire che falsi Che Guevara come il generale Qassem Soleimani se ne vadano in giro per il mondo senza rischiare di finire in carcere.
In questo momento di grande smarrimento occidentale davanti alle tensioni create dalla Turchia in Siria, una strategia univoca che costringa Teheran a capitolare, potrebbe essere un messaggio fondamentale per tutti gli attori che creano drammatiche crisi in Medioriente: potrete vincere una battaglia militare a suon di bombe e armi chimiche, ma davanti ad un Occidente unito che vi chiude i battenti economicamente, capitolerete definitivamente e dal vostro stesso interno. Così cadde l’Urss, così possono capitolare i dittatori al potere a Teheran, Damasco e Ankara…