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La bromance Trump-Modi: gli Stati Uniti si avvicinano all’India per contrastare la Cina

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Spesso si legge su quotidiani e social network che Donald Trump non ha una vera politica estera e, sull’argomento, ci sono differenti scuole di pensiero. Una è semplicistica e sostiene che, essendo il presidente piuttosto imprevedibile, riduce pure questo campo d’azione a quelli che lui stesso predilige: spettacolo e affari.

La seconda scuola di pensiero è meno banale e chi vi appartiene nota che, a dispetto di un’apparente confusione, Trump ha comunque individuato i punti critici collocati, per lo più, in Asia. La Corea del Nord e l’Iran, dove l’approccio morbido di Obama ha fallito, e la Cina, con la quale il contenzioso è sia politico che economico.

Ed è proprio a quest’ultima che il presidente Usa dedica un’attenzione costante, anche quando sembra che le sue preoccupazioni siano rivolte altrove. Già in campagna elettorale aveva chiarito di considerare la Repubblica Popolare come la vera rivale geo-strategica degli Stati Uniti, e su questo tema è difficile dargli torto.

Per quanto molti lo neghino, la sua politica dei dazi ha ottenuto risultati costringendo Pechino a più miti consigli. Il vero problema, in questo caso, è posto dalla forte interconnessione tra l’economia cinese e quella americana, che rende difficile andare oltre certi limiti.

Il presidente non ha però avuto esitazioni su casi più squisitamente politici. Ha fornito appoggio alle proteste di Hong Kong senza troppo curarsi dell’irritazione di Pechino. Stesso discorso per quanto riguarda Taiwan che, dopo la vittoria degli indipendentisti, torna ad essere un alleato chiave degli Stati Uniti nonostante il permanente ostracismo cui l’isola è sottoposta anche da parte di parecchie nazioni occidentali.

C’è tuttavia un altro fatto importante che dimostra come la politica estera trumpiana dipenda sempre e comunque dal proposito di arginare l’ascesa cinese in ogni ambito: politico, economico e strategico. Infatti, dopo decenni di rapporti piuttosto freddi, assistiamo ora a un significativo avvicinamento tra Stati Uniti e India.

Com’è noto in quell’area era il Pakistan a vantare legami preferenziali con gli americani, a dispetto del fondamentalismo islamico assai forte nel Paese. L’India è stata invece per molto tempo vicina all’ex Unione Sovietica e ha poi proseguito una politica che non si può certo definire filo-occidentale.

La situazione è cambiata con l’avvento in India del nazionalista Narendra Modi. Anche gli indiani temono molto l’ascesa della Cina, con la quale peraltro hanno pure sostenuto in passato conflitti militari limitati. Modi e il suo governo stanno sfruttando la presenza di Trump alla Casa Bianca per cambiare le alleanze tradizionali.

Dopo la visita, avvenuta l’anno scorso, di Narendra Modi in Texas, nel corso della quale fu notata la sua grande popolarità tra gli immigrati indiani, Donald Trump si è appena recato nel Paese asiatico riscuotendo un grande successo allo stadio Motera di Ahmedabad.

Lontani i tempi in cui gli yankees erano visti con sospetto, il presidente americano è stato accolto da folle osannanti e il leader indiano Modi non ha perso occasione per lodarlo. Superate alcune dispute economiche, i due Paesi hanno firmato accordi (anche relativi a forniture militari Usa).

È probabile che questi eventi segnino un punto di svolta nelle relazioni tra le nazioni di quest’area così delicata e importante. India e Stati Uniti hanno in comune l’interesse a contenere l’espansionismo e a ridimensionare le ambizioni globali della Cina.

In comune c’è pure l’interesse a combattere il fondamentalismo islamico, che preoccupa gli Stati Uniti assai più del fondamentalismo indù, di cui Narendra Modi è in fondo un’espressione. È ovvio che si avrà per questo un peggioramento dei rapporti tra gli Usa e un loro antico alleato come il Pakistan.

Prevedibile, inoltre, che Modi e il suo partito sfruttino l’appoggio americano per non dare troppo peso agli attacchi della comunità internazionale, che ha pesantemente criticato la recente legge sull’immigrazione sfavorevole ai musulmani.

In ogni caso, il vero problema resta la Repubblica Popolare Cinese, percepita dai due leader come una minaccia permanente ad ogni livello. In conclusione, è falso affermare che Trump non ha una politica estera. Adotta sempre un certo opportunismo memore del suo slogan America First, e alla pari di Modi, è un nazionalista. Non parla invece di “diritti umani”, grande cavallo di battaglia del duo Barack Obama – Hillary Clinton. Ciò non significa mancanza di politica estera, bensì attenzione nei confronti delle nazioni che non sono in conflitto con gli Usa e, soprattutto, indica un notevole realismo politico in linea con la politica estera di molti suoi predecessori alla Casa Bianca.

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