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La burocrazia non può fermare un medico: il TAR boccia il protocollo Speranza e vigile attesa

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“È onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito. La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professionale, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid-19 come avviene per ogni attività terapeutica.”

Questo è il cuore decisorio e concettuale della recente e condivisibile sentenza del TAR Lazio, sez. III-quater, n. 419/2022, che ha annullato la circolare del Ministero della Salute nella parte in cui essa ha recepito le linee guida dell’AIFA: fuor di linguaggio giuridico-amministrativo, il famigerato protocollo sulla vigilanza attiva o “vigile attesa” che dir si voglia.

In attesa della proposizione dell’appello in Consiglio di Stato che potrebbe per l’ennesima volta ribaltare la situazione, alcune considerazioni si impongono.

Quella del TAR è una pronuncia particolarmente importante: ennesimo punto di approdo di una autentica saga che da due anni oppone i medici che hanno sempre contestato il protocollo ministeriale e i burocrati statali. Già nel 2021, con ordinanza n. 1412/2021, il Tar Lazio aveva sollevato la questione fondamentale dell’essenza stessa della professione medica: nessun atto amministrativo può impedire al medico di esercitare la propria attività di cura del paziente, secondo le linee fondanti della deontologia medica e secondo l’evoluzione stessa della scienza medica.

Il Consiglio di Stato, come organo d’appello, ha avuto, di conseguenza, più volte modo di esprimersi sulle linee guida AIFA, sussunte nella plurimamente impugnata circolare ministeriale: non sempre e non solo per la vigile attesa, va detto, ma il framework che risulta dai provvedimenti lascia intendere il caos dentro cui è piombata la stessa burocrazia ministeriale.

Con ordinanza n. 7097/2020, ad esempio, il Consiglio di Stato, III sezione, aveva sconfessato le linee guida AIFA, nella parte in cui vietavano l’utilizzo off-label della idrossiclorochina. Da ultimo, nel 2021, con ordinanza n. 2221/2021, l’organo supremo della magistratura amministrativa aveva invece ribaltato la precedente ordinanza cautelare del TAR che aveva sospeso la “vigile attesa”: in questo ultimo caso, l’argomentazione dei giudici di Palazzo Spada, oltre che scarsamente convincente, aveva lambito l’aporia logica.

Perché, secondo il Consiglio di Stato, “la natura dell’atto impugnato porta ad escludere l’esistenza di profili di pregiudizio dotati dell’attributo della irreparabilità, dal momento che la nota AIFA non pregiudica l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito”. L’aporia logica lamentata si situa nella totale mancata considerazione del valore di esimente delle linee guida, cosa che è invece ben presente nella argomentazione dei TAR.

In tutte le sentenze e ordinanze fin qui accumulate, infatti, ci si è posti il problema della cogenza di queste linee guida e della loro esigibilità: tutti i giudici riconoscono che le stesse, per loro stessa natura, non impediscano al professionista di discostarsene, agendo secondo il fondamento basilare della propria professione medica e della evoluzione della conoscenza scientifica e, soprattutto, assumendosi le responsabilità conseguenti alle proprie prescrizioni e decisioni. Le linee guida AIFA e la sequenziale ordinanza ministeriale non possono, e non avrebbero mai potuto, impedire al medico di operare comunque, anche in maniera difforme, a tutela del paziente.

Ma qui si rinviene il vero punto dolente e che differenzia l’architettura concettuale delle pronunce giudiziali che al contrario, in chiave semantica, sembrerebbero tutte abbeverarsi ai medesimi termini. Secondo i giudici di prime cure che hanno sospeso o annullato la circolare, è vero senza dubbio che il medico potrebbe discostarsi dalla circolare e curare in maniera difforme dalla stessa, ma c’è da tenere in massima considerazione che le linee guida operano come esimente in chiave di riconoscimento della responsabilità tanto civile quanto penale: detto in altri termini, il medico certamente potrebbe discostarsene ma sarà indirettamente scoraggiato dal farlo, perché lo dovesse fare ne potrebbe poi rispondere in sede tanto civile quanto penale.

Come correttamente rilevano i giudici TAR, al contrario del Consiglio di Stato, la circolare opererebbe invece come ‘schermatura’ e come almeno parziale scudo, incoraggiando i medici a seguire in maniera pedissequa le direttrici stabilite dai burocrati di Lungotevere Ripa, al fine di non incorrere in responsabilità di matrice giuridica, tanto risarcitoria quanto penale.

La questione della qualificazione giuridica delle linee guida, che punteggia il dibattito generale sulle linee guida, inerisce la sempre più annosa questione della penetrazione della soft law nel ventre dell’ordinamento: sull’onda montante di una crescente e adattiva fluidità della società, il diritto stesso ha dimostrato, sotto l’angolazione prospettica delle fonti e dei propri elementi costitutivi, una porosità che ha portato alla fondazione di framework normativi sempre più complessi ed enigmatici.

Non più, detto in altri termini, la legge, l’atto amministrativo, ma anche note, indirizzi operativi, linee guida, con una tendenziale entropia che non aiuta la certezza del diritto e soprattutto la adeguata contestualizzazione di questi nuovi elementi che finiscono per interpolare il nocciolo duro del diritto.

Nella labirintica e confusa consistenza di una pandemia, questo caos metanormativo lungi dal costituire un elemento di adattività e di fluidità del diritto alla realtà sociale e medica in continua evoluzione si è reso fattore di complicazione, nei fatti paralizzando la libera iniziativa dei medici, per le motivazioni che vedremo.

Qui si situano due ordini di considerazioni: una di matrice politica, e l’altra concernente la professione medica e le sue modalità di esercizio.

Per quanto concerne il primo punto, ripercorrendo la saga giudiziaria si può evincere come la pandemia sia stata nei fatti burocratizzata: ingabbiata e inscatolata all’interno dell’inerte linguaggio ministeriale, essa è rimasta ferma, cristallizzata a quel 2020. Ed invero tutto ciò appare assurdo e di inusitata gravità. Perché la situazione odierna, nel 2022, non è e non può nemmeno lontanamente essere considerata similare a quella, incandescente, che infuriava nel corso del 2020, quando la pandemia era agli albori, sconosciuta e imprevista.

Si registra quindi qui una enorme responsabilità del Ministero e del suo titolare, Roberto Speranza, che non sembra abbiano mai attivamente lavorato per riaggiornare radicalmente i protocolli operativi; cosa questa che non solo sarebbe resa davvero obbligatoria ormai dal mutamento del contesto complessivo, delle acquisite conoscenze mediche e farmaceutiche intercorse negli ultimi mesi, ma anche dalle varie pronunce giudiziarie che hanno, concettualmente parlando, denudato la fallacia complessiva di quei protocolli.

E fa certamente impressione dover leggere, scorrendo la più recente sentenza TAR, come il “contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale”.

In questo senso, l’inerzia come condotta privilegiata sembra essere topos irrinunciabile del mondo politico e della burocrazia sanitaria: si pensi allo spinosissimo caso del mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, altro caso emblematico di una immobilità decisionale dai risvolti inquietanti.

La mancanza di una severa polemica politica atta a richiamare le reali responsabilità del ministro Speranza, il cui unico esito dovrebbero essere le dimissioni dello stesso, forse frutto questa mancanza del clima di generale sdilinquimento politico dovuto alla ‘unità nazionale’, alla luce delle pronunce giudiziali, della vetustà dei protocolli medicali operativi previsti da AIFA e Ministero, la dice comunque lunga sulla generale incapacità di mettere a sistema la drammaticità del contesto complessivo, indulgendo in serietà di analisi e in senso di responsabilità e lucidità nel trarre le conclusioni.

C’è poi un secondo aspetto ed è quello che riguarda il modo concreto di esercizio della professione medica: la pandemia ha divaricato in maniera ancora più evidente e feroce la differenza che intercorre tra medico coscienzioso, che potremmo definire medico-medico, e dall’altro lato i medici-burocrati, avvinti questi solo dalla preoccupazione di ossequiare le note ministeriali senza porsi la questione fondamentale della reale cura e della salute dei loro pazienti.

Medici che non hanno mai visitato i loro pazienti, e che per telefono li hanno liquidati ‘prescrivendo’ solo una antesignana autovigilanza e nel caso dell’insorgere di alcuni sintomi cavandosela solo con la Tachipirina. Mentre dall’altro lato, medici che sfidando appunto la circolare ministeriale, e quindi caricandosi in spalla la piena responsabilità delle loro scelte e delle loro prescrizioni, si sono interessati realmente del quadro clinico e sintomatologico dei loro pazienti.

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