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La democrazia “totalitaria”: se lo Stato interviene su tutto, ogni elezione è una guerra civile

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A causa dell’ingordigia dello stato, dell’ampliamento illimitato del suo perimetro e della pervasività della sua azione, la posta in gioco a ogni elezione è oramai altissima. Quando il potere dello stato è ben limitato, il danno che può risultare dalla vittoria della fazione avversa è tutto sommato contenuto; ma quando lo stato ha voce in capitolo su ogni aspetto della nostra vita, ci giochiamo tutto, o quasi, al prossimo appuntamento elettorale…

Henry Louis Mencken scrisse: “La democrazia è la patetica fiducia di una ignoranza individuale nella saggezza collettiva”. Sebbene la definizione possa risultare urticante, lo è nello stesso modo in cui l’alcol brucia sulla ferita aperta. E brucia ancor di più oggi rispetto a quando la frase fu vergata, giacché ci troviamo a vivere in un’epoca in cui la democrazia è assurta a religione indiscutibile, panacea di tutti i mali e risposta ultima a ogni problema, con l’aggravante delle nuove (e potenzialmente terminali) proposte di democrazia diretta.

Partiamo da una considerazione: oramai è ben chiaro a tutti, sia in ambito accademico che all’uomo della strada, che l’elettore è del tutto privo delle conoscenze specifiche e degli strumenti intellettuali necessari a valutare le diverse politiche pubbliche. Per di più, a causa della facile presa delle idee più balzane, si può senza troppe ambasce affermare che ogniqualvolta venga introdotta nel dibattito pubblico qualche proposta assurda, c’è un’alta probabilità che questa venga accolta con entusiasmo da una buona maggioranza dell’elettorato. In alternativa pensiamo al persistere di misure protezionistiche, alla vieppiù gravosa pressione fiscale, al debito pubblico alle stelle e al reddito di cittadinanza, tanto per citarne qualche altra.

Le strampalate convinzioni di una maggioranza non rappresenterebbero un problema se la meccanica democratica non permettesse loro di tradursi in leggi vincolanti per l’intera popolazione, creando così esternalità di dimensioni ciclopiche. Se attraverso il meccanismo del voto io non potessi imporre a terzi la mia particolare visione del mondo, rimarremmo in un ambito di innocue differenze di vedute: ma così non è. Peraltro, a causa dell’ingordigia dello stato, dell’ampliamento illimitato del suo perimetro e della pervasività della sua azione, la posta in gioco a ogni elezione è oramai altissima: la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento può significare la possibilità di scegliere (o meno) una certa educazione per i propri figli, di intraprendere (o meno) una certa attività economica, di conservare (o meno) la propria libertà di espressione.

Risulta del tutto comprensibile, allora, il crescente conflitto fra tribù politiche e il conseguente acuirsi del livello di scontro civile interno cui si assiste quasi ovunque negli ultimi anni. Non è affatto strano che un padre non veda di buon occhio che la propria figlia o il proprio figlio abbiano partner con visioni politiche opposte alle proprie, dato che la pervasività della presenza del “pubblico” rende potenzialmente esiziale per i propri progetti di vita l’affermazione in sede elettorale delle idee del potenziale partner. Quando il potere dello stato è ben limitato, il danno che può risultare dalla vittoria della fazione avversa è tutto sommato contenuto; ma quando lo stato ha voce in capitolo su ogni aspetto della nostra vita, ci giochiamo tutto, o quasi, al prossimo appuntamento elettorale.

E sgombriamo il campo da un’impostura, anzi due. La prima: non è affatto vero che i problemi causati dalla democrazia si risolvano con più democrazia, che è quanto sbandierato da politici e supposti intellettuali che non sembrano aver dedicato un solo minuto del loro tempo a una minima analisi di quello che affermano. E non è neanche vero che l’unica alternativa alla democrazia siano sistemi autoritari in grado variabile o governi degli esperti. No, una diversa alternativa c’è, eccome: ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone, e consiste in quella cooperazione volontaria e spontanea tra individui che va sotto il nome di “mercato”.

Non ce ne voglia Papa Francesco, sempre così poco misericordioso quando si tratta di affibbiare epiteti abrasivi ai difensori di questo sistema (l’ultima frase affettuosa parlava di un sistema “genocida” …), ma purtroppo per lui – e per la fortuna del resto dell’umanità – il sistema di libero mercato funziona, eccome! E dovrebbe anzi rallegrarsene, a meno che il suo amore per i poveri non significhi che li ama tanto da volerne sempre di più.

Dunque la soluzione ai problemi creati dalla democrazia è proprio lì, hidden in plain sight, disponibile a chiunque voglia riflettere seriamente sulle opzioni aperte per il miglioramento della vita delle persone. Più cooperazione spontanea, più mercato, più mano invisibile e meno mani pubbliche (parecchio) visibili e asfissianti. Non c’è contraddizione tra l’irrazionalità dell’“uomo comune” nei suoi panni di elettore e la sua razionalità come agente privato. Difatti, mentre l’elettore medio non ha gli strumenti per giudicare il funzionamento di sistemi alternativi, quando si tratta di scelte personali non c’è miglior giudice di noi stessi, con le nostre preferenze e la nostra conoscenza iper-specifica delle nostre condizioni individuali. Oltre al fatto che, ovviamente, quando agiamo sul mercato non stiamo imponendo ad altri alcunché, laddove invece col nostro voto entriamo a gamba tesa nelle vite altrui.

Come passo intermedio, e dato che oramai viviamo in società fortemente fratturate, in guerra civile strisciante, perché non permettere alle diverse comunità di scindersi, di secedere, di scegliersi i compagni di viaggio secondo le proprie affinità elettive? Tito tenne sotto il proprio giogo l’intera Jugoslavia, e tutti ad applaudire perché aveva “tenuto insieme” realtà così diverse e conflittuali. Salvo poi, una volta caduto il suo regime oppressore, dover assistere a guerre fratricide di inusitata violenza. Ovviamente non siamo a quei livelli, ma la domanda rimane: non sarebbe stato meglio lasciare quelle comunità libere di decidere se autodeterminarsi, risparmiando loro regolamenti di conti e fiumi di sangue? Lì si trattava di fratture etniche, qui di fratture politiche, di visioni del mondo opposte rese irreconciliabili dal dominio dello stato. È ora di cominciare a dare le risposte giuste prima che lo scontro civile assuma dinamiche incontrollabili.

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