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La “generazione perduta” e il mito del mercato del lavoro italiano asfittico

Per ottenere rendimenti bisogna allungare le durate dei titoli. Ma, state attenti all’inflazione

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Chissà perché i discorsi di buon senso, in Italia, risultano sempre difficili da fare. Dovrebbe essere il contrario, se fossimo un Paese normale. E invece non lo siamo, ci piaccia o no. Voglio inoltre chiarire sin dall’inizio che non intendo utilizzare argomentazioni astratte. Non parlo del common sense tanto caro alla scuola filosofica scozzese – purtroppo poco conosciuta in ambito italiano – ma del termine quasi banale “buon senso”, quello che adoperiamo a piene mani nelle nostre conversazioni quotidiane.

Il tema è il mercato del lavoro. Tempo fa ho scritto un articolo in cui parlavo della cosiddetta “generazione perduta”, quella formata da persone che si collocano fra i 30 e i 40 anni, sottolineando come le generazioni anziane siano responsabili della situazione in cui i più giovani si trovano per aver fatto loro trovare un mercato del lavoro asfittico – e a volte inesistente – che li rende vittime di un precariato permanente (quando va bene!).

Resto in sostanza della mia idea. Abbiamo sperperato risorse che, letteralmente, non c’erano, garantendoci uno stile di vita che non potevamo permetterci. La classe politica ha colpe enormi, ma non si venga a dire che tutto, ma proprio tutto, è imputabile ai politici. Siamo, in realtà, complici di una mentalità diffusa, che ha indotto a ritenere per anni che lo Stato avesse risorse infinite. Valeva il famoso detto “tanto paga Pantalone!”.

E invece le risorse infinite non c’erano affatto, tanto che siamo sommersi da un debito che è quasi interamente nelle mani dei mercati internazionali i quali, si sa, non sono teneri. Pretendono la restituzione delle somme investite, ragion per cui ogni asta dei nostri buoni del tesoro diventa un thriller. Se l’asta fallisse si manifesterebbe concretamente il rischio di non poter pagare stipendi e pensioni, con tutto ciò che ne consegue. Per ora non è accaduto, domani potrebbe verificarsi.

È vero, quindi, che stiamo uccidendo la speranza dei giovani nel futuro. E questa è una colpa gravissima, per non dire imperdonabile. Tuttavia, alcuni lettori, nei loro commenti “a caldo”, mi fecero notare che, forse, varrebbe la pena di piantarla con i piagnistei. Poiché – argomentano – pure i giovani hanno le loro colpe. Si tratta probabilmente di colpe “riflesse”, dal momento che noi li abbiamo educati e hanno assorbito il nostro modo di rapportarsi al mondo circostante.

I nostri nonni – e anche i padri – nei due dopoguerra emigravano in massa per trovare lavoro all’estero. La cosa destava sconforto ma la vita continuava, magari fondando comunità italiane ai quattro angoli del mondo. Poi è iniziato il flusso contrario. L’Italia, da terra di emigranti, è diventata un Paese che “importa” lavoratori stranieri in grandi quantità. Importante è capirne i motivi.

Non sono poi così misteriosi come sembra. È accaduto che, a un certo punto, gli italiani hanno iniziato a rifiutare molti tipi di impiego. Talora perché pagati poco, più spesso poiché vengono ritenuti “degradanti” o poco soddisfacenti dal punto di vista del prestigio sociale. Si è diffuso il mito della laurea a tutti i costi, anche quando è chiaro che serve a poco o niente, e sono stati lasciati agli immigrati stranieri interi settori economici che avevano – e ancora hanno – un grande bisogno di addetti.

Gli esempi si sprecano. Gli artigiani, in tutti i sensi della parola, sono diventati merce rara. Più difficile reperire l’idraulico e l’elettricista del medico. I restauratori di mobili, pur ben pagati, sono anch’essi pochi e hanno liste d’attesa degne di un illustre primario.

Ma c’è un caso ancora più eclatante e ben noto. L’età media della popolazione italiana negli ultimi decenni è aumentata in modo prima impensabile. Ne è derivata la necessità di trovare persone che assistano gli anziani in modo continuo, per l’intera giornata e spesso anche di notte. Gli anziani sono tantissimi e, di conseguenza, anche il numero di chi presta assistenza domiciliare è destinato a crescere sempre più. Si tratta di un lavoro difficile e delicato che, tra l’altro, garantisce pure una remunerazione dignitosa.

Si trovano italiani/e disposti a operare in questo settore così in crescita? Casi rarissimi. Siamo stati invasi – nel senso buono della parola, per carità – da “badanti” che provengono per lo più dal Sud America o dai Paesi dell’Est che una volta appartenevano al blocco sovietico. Svolgono, di solito, un ottimo lavoro, ma non si capisce il motivo che spinge quasi tutti i nostri connazionali a rifiutarsi di fornire prestazioni di quel tipo, tra l’altro così importanti. O, meglio, lo si capisce benissimo: il nome “badante” viene considerato una sorta di offesa alla propria dignità sociale e, allora, si volta la testa dall’altra parte.

Non voglio farla troppo lunga dal momento che si possono facilmente trovare decine di esempi altrettanto calzanti. A questo punto, però, urge chiedersi se il mercato del lavoro nostrano sia davvero così asfittico come si vuole far credere. Dipende. Se tutti aspirano a una professione che implichi la laurea e fornisca subito alti guadagni, allora lo è. Se invece viene considerato nel suo complesso lo diventa assai meno, con interi comparti che assorbirebbero notevoli quantità di mano d’opera in un periodo di crisi economica tanto grave.

Sarebbe necessario un radicale cambiamento di mentalità, che può solo essere indotto da un’educazione – familiare e scolastica – destinata a non svilire, per esempio, le professioni manuali esaltando quelle di tipo intellettuale. Una sorta di “rivoluzione educativa” assai difficile da realizzare visti i modelli culturali dominanti, dei quali noi stessi siamo portatori e abbiamo in seguito trasmesso ai nostri figli.

Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, anche perché la crisi incalza e il sistema Italia continua a perdere colpi nello scenario mondiale. Il mio è un discorso terra terra, di “buon senso” come dicevo all’inizio. Però forse aiuta a capire che il mito del mercato del lavoro italiano asfittico o inesistente è, per l’appunto, solo un mito. Esistono vasti settori del mercato in cui i nostri connazionali neppure si curano di mettere il naso, per paura di una presunta degradazione sociale. E tale situazione non può durare a lungo, se si vuole che il Paese torni finalmente a crescere sviluppando le sue indubbie potenzialità.

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