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La globalizzazione non sarà più la stessa: standard minimi ambientali, di igiene e di diritti

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento del professor Alberto Dell’Acqua, Direttore Master in Corporate Finance, SDA Bocconi

Caro Direttore,

mi permetta di rubare ancora un po’ di spazio sulla sua interessante rivista per una mia riflessione sull’economia internazionale post-emergenza coronavirus. Poi, glielo prometto, tornerò ad occuparmi del presente, delle beghe del quotidiano e volerò più basso. Un contributo sullo scenario economico globale dopo la crisi pandemica è però percepito come urgente da parte mia: qualcosa da cui non posso sottrarmi, è un bisogno impellente non rimandabile. Le dico subito che l’economia internazionale post-coronavirus non potrà e non dovrà essere più la stessa. La globalizzazione economica di questi ultimi vent’anni, segnata dall’ingresso della Cina nel WTO, è stata da molti applaudita e quasi venerata perché foriera di sviluppo economico e progresso sociale. Con queste due ultime motivazioni sono stati spesso sorvolati e taciuti i forti limiti della globalizzazione, ossia l’assenza di minimi standard igienici, di sicurezza e dignità del lavoro, e di diritti umani, che i Paesi partecipanti al commercio internazionale dovrebbero garantire. Se, come molti esperti hanno indicato, la causa del coronavirus è stata non certo qualche strano e incauto esperimento da laboratorio, che magari ci sarà anche stato, ma la sregolata deforestazione del territorio cinese, immolato a vittima sacrificale dell’inarrestabile crescita industriale, questo ci obbliga ad una seria riflessione. Una deforestazione costante che trasla virus forse millenari, che soggiornavano sonnacchiosi da anni in corpi animali in impenetrabili foreste, e li trasmette agli uomini provocandone la morte, è un monito concreto dato dalla natura all’attuale sviluppo globale.

Questo tema dovrebbe essere colto da molti dei politici nostrani, poiché proprio l’Italia potrebbe cavalcarlo e farne il proprio vessillo di politica internazionale nelle sedi opportune, Ue ed extra-Ue. A differenza di altri Paesi, l’Italia ha una maggiore qualità dell’ambiente, sia inteso in termini ecologici sia per quanto concerne la sicurezza e la qualità del lavoro. Durante questa crisi, abbiamo dimostrato inoltre, pur nelle ingenti difficoltà, una capacità di gestire l’emergenza sanitaria, poiché la salute è un nostro valore fondante, diffuso e universale. Inoltre, il nostro Paese è stato più trasparente, condividendo informazioni preziose nella gestione della crisi e di utilità per gli altri Stati. Al contrario, altre nazioni occultavano i dati, conteggiavano le vittime sulla base di criteri parziali, tacevano il contagio, si veda il caso di Ischgl in Austria, quando vi erano già evidenze a comprovarlo. La pandemia ha fatto emergere le qualità delle migliori norme sociali e di rispetto dell’ambiente di un Paese come il nostro. Sono proprio questi i vessilli che dobbiamo issare nello scacchiere internazionale. Basta solo soggiacere a criteri economici e finanziari, come l’alto indebitamento pubblico, di cui siamo continuamente additati e di cui siamo rei confessi, ma da cui non può esclusivamente dipendere il nostro futuro come esseri umani. A maggior ragione se poi è una crisi ambientale a determinare una pandemia globale, con forti ripercussioni economiche.

È necessario tornare a dare priorità alle norme igieniche e sociali quali pilastri su cui può reggersi l’economia e la finanza internazionale, non il contrario. Figure mediatiche come Greta Thunberg non possono essere solamente feticci per riposizionare le politiche energetiche, a favore di questa o di quell’altra fonte di energia, e solo perché ci sono grossi interessi transnazionali alle spalle. L’intero sviluppo industriale deve essere orientato al rispetto di standard minimi ambientali, di igiene e di qualità del lavoro e diritti umani, in una prospettiva olistica, in grado di interessare tutti i settori economici, non solo alcuni. I modelli gestionali ESG (Envirnomental, Social, Governance), non siano solo slogan estetici per attrarre capitali ma vengano assunti come criteri di civiltà minima, che la politica deve fare propri. Dobbiamo chiederci, una volta per tutte, quale sia il futuro che vogliamo per i nostri figli e quali imprenditori e imprese vorremmo avere un domani. Vogliamo continuare a modellare imprenditori e imprese che producono in luoghi ameni, ma con lavoro a basso costo grazie al suo sfruttamento? Vogliamo plaudire imprese che poi posizionano le loro sedi in Paesi a fiscalità alleggerita per ottimizzare i profitti? Vogliamo imprese che fanno ingenti ricavi vendendo nei mercati “moderni” dove le persone comprano a prezzi stratosferici per dare un senso di status ai loro acquisti? Tutto ciò in un contesto di iper-consumo favorito dal credito che viene concesso dal reimpiego degli stessi profitti delle imprese e dei guadagni dei loro magnati. O vogliamo qualcosa di diverso, più equo, più rispettoso della natura e dell’uomo? Su questi temi di sicuro possono incidere molto gli insegnamenti impartiti dalle stesse business school, quali templi del capitalismo globale. In queste sedi è ormai in atto una importante riflessione che ha portato alla revisione dei tradizionali modelli imprenditoriali. Oggi, molte scuole di management, a partire da quelle più blasonate del Nord America, sono impegnate a insegnare i valori etici, sociali e ambientali, prima ancora che i modelli per investire e trarre profitto.

Quale scenario possiamo immaginare invece per l’economia italiana nel post-coronavirus? Il mio auspicio è di una rinnovata politica industriale che faccia leva proprio su questi valori umani, sociali e ambientali. Nulla a che vedere, per carità con lo “Stato imprenditore”, poiché un’evenienza del genere porterebbe solo inefficienza, clientelismo e cultura anti-meritocratica. Bensì, una politica industriale che sia sostanziata nel fissare gli obiettivi strategici, dando priorità ad alcuni settori rispetto ad altri, e che definisca adeguati incentivi per favorirne il raggiungimento. La nuova politica industriale dovrebbe però mantenere ampie le distanze da guru o sedicenti illuminati, che decantano favole economiche con storytelling persuasive sui mirabili orizzonti della scienza, della tecnologia e del capitale. Meglio guardare in faccia alla realtà e attribuire la guida a persone capaci e dai solidi valori morali, per formulare proposte concrete adatte al contesto economico italiano. È più ragionevole orientare le politiche industriali all’applicazione delle nuove tecnologie ai settori italiani vincenti, quali pilastri economici tradizionali da rimodernare per costruire il prossimo futuro. Dovremo quindi puntare più convintamente sui settori del turismo, dell’alimentare e delle bevande, della moda e della salute, valorizzando ciò che ha reso unico il nostro Paese nel mondo: il Made in Italy fatto in Italy, con norme sociali e ambientali italiane.

Direttore, mi perdonerà la digressione, ma come promesso ora torno al mio quotidiano: ai soldi che non arrivano alle imprese, alle incertezze sulla riorganizzazione produttiva della ripartenza, al dibattito “Mes o non Mes” con i soldi che però non ci sono, insomma al solito tran-tran di un professore di economia e finanza d’impresa di una business school italiana.

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