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La identity politics è negazione dell’individuo, della sua libertà e del suo valore

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Il Superbowl disputatosi recentemente mi ha fatto venire in mente un bellissimo film ambientato nel mondo del football americano: “Il sapore della vittoria – Uniti si vince”. Il protagonista è Herman Boone, interpretato da Denzel Washington, un allenatore afro-americano che deve guadagnarsi il rispetto della sua squadra, composta per la prima volta da bianchi e neri, nell’America degli anni ’60, dove il razzismo sistemico era una cosa vera e non un prodotto della fervida fantasia dei millennials.

Boone ha un allenatore in seconda che è il classico prototipo del liberal che si finge di larghe vedute: bianco, tratta i neri in squadra con compatimento e senso di pietà. La frase rivelatrice è quella che Boone gli rivolge, per contestare il suo vizietto di consolare i giocatori neri (e solo loro) ogni volta che questi ricevono un rimprovero da Boone:

“Io sono cattivo allo stesso modo con tutti i ragazzi della squadra. […]. Lei non gli fa un favore con la sua condiscendenza, ne fa dei menomati”.

C’è da scommettere che tale film non sia stato inserito nella lista di quelli che alcune aziende hanno cominciato a raccomandare ai propri dipendenti.

Ma che c’entra un privato con i gusti cinematografici dei suoi dipendenti?

C’entra eccome, soprattutto se siamo a febbraio, il Black History Month. Nato come serie di eventi per celebrare l’orgoglio di essere afro-americani, l’iniziativa è stata fatta propria da grandi gruppi (Nordstrom ad esempio, specializzato in abbigliamento) fino ad agenzie di marketing, che invitano il personale a guardare film interpretati o diretti da persone di origine africana, ascoltare musica black, leggere libri di neri, ecc. Ci sono persino app per trovare negozi gestiti da neri.

La chiamano inclusività, per darsi una patina di buone intenzioni.

La realtà è ben diversa: il politicamente corretto e la identity politics, partorite nei campus americani, dopo aver infettato i media stanno diventando sempre più invasivi.

Non si capisce infatti il nesso tra il fatto che un negozio sia gestito da una persona appartenente ad una certa etnia e il rapporto qualità-prezzo, la cortesia, la competenza del negoziante, che dovrebbero essere i criteri principali nella scelta fra tanti soggetti tra loro in concorrenza.

Nulla c’entra con il libero mercato. Perché nulla c’entra con l’aggettivo libero. Le quote rosa (o nere, o di qualsiasi altro colore) sono infatti la negazione della libertà.

Alla decisione libera e razionale del consumatore nello scegliere un prodotto o del dirigente nello scegliersi un collaboratore, viene sovrapposto (anzi, quasi imposto) il rispetto di criteri la cui violazione porta ad accuse di sessismo, razzismo, ed altri ismi assortiti.

Ad oggi si tratta solo di iniziative “spontanee” di alcune aziende. Domani però la cosa potrebbe prendere una piega molto pericolosa, nel caso qualche legislatore si sognasse di imporle per legge.

Già adesso, come ricordato da Jordan Peterson, nello Stato di New York all’interno delle aziende si può essere multati se ci si rivolge ad un collega utilizzando un pronome personale che non rispecchi la sua “identità di genere”.

Peterson, celebre psicologo canadese, è non a caso uno studioso dell’autoritarismo, specialmente di quello di sinistra.

Una sinistra che alla fine mostra il suo vero volto: il disprezzo per il singolo individuo e il tradimento dell’American Dream, quello dell’uomo libero, pioniere in territorio inesplorato, che riesce a coronare i suoi sogni col duro lavoro e l’impegno che mette in luce i suoi meriti.

Merito e meritocrazia sono infatti parole proibite nella neo-lingua che i sacerdoti del politicamente corretto usano nei loro culti.

Tutti vengono etichettati, in base al genere, all’orientamento sessuale, all’etnia, come se ciò bastasse a definire un individuo e le sue aspirazioni. Sono queste appartenenze a decretare il rispetto e l’accettazione da parte degli altri, non il valore in sé di quello che si dice o si fa.

Le conseguenze sono alle volte imprevedibili, soprattutto dove le categorie si sovrappongono: spassosissime le liti tra alcune femministe e gruppi transgender.

La sinistra però non sembra dare peso alle contraddizioni che il suo pensiero genera: con la sua (il)logica orwelliana, si può essere ossessionati dal colore della pelle e dall’appartenenza etnica ed al tempo stesso lottare contro un razzismo che si ritiene infiltrato ovunque, anche nei nostri retro-pensieri.

Per quanto mi riguarda, non seguirò alcuna raccomandazione in fatto di film che non possa essere quella di un critico o di chi abbia già visto il film. Non sprecherò nemmeno un minuto del mio tempo a guardare Lupin neri o Achille neri (il blackwashing cinematografico meriterebbe un articolo a parte).

Continuerò invece a guardarmi film con Denzel Washington, non perché nero, ma perché uno degli attori migliori in circolazione (e lo sarebbe anche se fosse trasparente). Perché come Herman Boone, penso che per scoprire i talenti dei neri non servano quote, mesi loro dedicati o il compatimento di qualche liberal da salotto.

Bastano meritocrazia e competizione a renderli persone libere e responsabili, sia che portino la loro squadra alla vittoria o che falliscano nel segnare una meta, anziché dei menomati come vorrebbe la sinistra con le sue pretese di redenzione etnica.

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