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La religione pandemista: nel nome della “scienza” travolti diritti e garanzie della democrazia liberale

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Il lockdown è divenuto una presenza fantasmatica, insistente, pervasiva, nelle nostre vite, agitato e brandito in un reiterato mantra da “esperti” e scienziati, alcuni dei quali insigniti di incarichi istituzionali, altri invece battitori liberi nel circo dell’informazione: una autentica fiera crudele, una “mostra delle atrocità”, tanto per citare il livido paradigma narrativo di James Graham Ballard che non a caso nel suo romanzo riservava un ruolo primario proprio a quella scienza che nel tentativo di farsi arte si era invece resa incubo.

Chiudere tutto, nel nome della scienza. Senza altre spiegazioni, senza condivisione di informazioni o di dati.

Un ipse dixit colossale e dogmatico che da un anno abbondante ormai si abbatte come un maglio di ferro su famiglie, studenti, imprese, lavoratori autonomi, eradicando il tessuto sociale delle città e ridisegnando la geografia economica, sociale e certamente anche psichica del nostro Paese.

In apertura del suo capolavoro, “L’uomo è antiquato”, Gunther Anders, pessimisticamente, rifletteva sulla necessità di interpretare e agire il cambiamento, senza subirlo passivamente e senza lasciare il mondo alla deriva, l’esatto contrario di quanto avvenuto in questo ultimo anno di oscurità pandemica, in cui siamo rifluiti al ruolo di spettatori e di sudditi, incapaci a porre domande e a ottenere, soprattutto, risposte ai quesiti essenziali di qualunque sistema istituzionale.

Chi decide?

Qual è la legittimazione di chi decide?

Su quali basi e con quali dati decide?

Come decide?

Al contrario abbiamo assistito a un riflusso dell’intero ordinamento in una ragnatela tecnica che ha geneticamente mutato, in peggio, gran parte delle garanzie previste da una matura democrazia liberale.

Il sistema delle fonti del diritto steso sul letto di Procuste della emergenzialità, in una pericolosa torsione che ha sdilinquito il portato garantistico della gerarchia delle fonti, sequenze inestricabili e laocoontiche di decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ordinanze di ministri e commissari, decreti-legge a monte della catena ma spesso evanescenti e vuoti nei loro paradigmi, e su tutto, l’ombra inquieta e lunga, delle dichiarazioni, delle opinioni, delle considerazioni degli scienziati.

Un nuovo altare pagano su cui sacrificare libertà, economia, socialità, affetti, e spesso anche la logica: le misure, tutte altamente impattanti sulla nostra vita, e sulla vita dei nostri figli, sono state attratte nell’ottica totalizzante di un frainteso diritto alla salute, elevato a totem fagocitante tutte le libertà e i diritti costituzionalmente tutelati.

Da diritto fondamentale il diritto alla salute è divenuto un diritto fondamentalista.

Ma in una democrazia parlamentare le decisioni dovrebbero basarsi non solo su flussi informativi, e qui gli stessi permangono in una coltre di oscurità, ma anche su un iter trasparente che renda possibile un discorso pubblico, di critica o di analisi o di valutazione. Nessuno di noi al contrario ha ancora oggi la più pallida idea di quale sia la acclarata scientificità di misure di lockdown attraverso cui, come in una ordalia medievale, siamo già passati per mesi, con l’unico sensibile risultato di uscirne con nervi ed economia a pezzi e una situazione pandemica ferma, a detta degli esperti, al punto di partenza.

Né qualcuno ha mai spiegato il senso scientifico del coprifuoco o del tenere un ristorante aperto a pranzo ma non a cena, come se il contagio seguisse un suo fuso orario. O il perché ci si contagi in un ristorante o a teatro ma non nel carnaio brulicante di un vagone della metro.

Eppure i chierici della nuova religione pandemica occupano manu militari giornali, programmi televisivi, trasformati quasi in escatologiche icone pop: promettono ecatombi, pesti nere, e ce li vediamo a ballare danze macabre come nel Nosferatu di Herzog, e non capisci mai se siano preoccupati o se al contrario tradiscano un fremito di piacere proibito nell’annunciare la fine prossima ventura, con quella ambiguità degna dei “comportamenti collettivi in tempo di peste” su cui ha scritto Jean Delumeau nel suo volume “La paura in Occidente”.

Per non parlare poi di quegli organismi, come l’onnipresente e onnipotente Comitato tecnico scientifico (CTS), incistati frettolosamente nel nostro circuito istituzionale, anche qui senza alcuna forma di trasparenza e senza che sia davvero chiara la loro aderenza al circuito decisionale politico: perché se un governo risponde al Parlamento e deve rendere conto tanto alla propria maggioranza quanto all’opposizione, il CTS al contrario non ha di questi obblighi, scindendosi dal sistema rappresentativo e finendo per rispondere semplicemente a chi lo ha nominato.

Le perplessità sull’organismo, e le differenze salienti con analoghe istituzioni adottate in altri Paesi come la Francia, sono state sottolineate più volte dalla dottrina costituzionalistica ma sembra quasi che il problema sia rimasto confinato al solo dialogo accademico.

Peggio ancora va con i consulenti ministeriali “personali”, fiduciariamente nominati dai ministri e le cui decisioni non si ha davvero idea di come e quanto divengano concreti elementi di policy. Una nebulosa costellazione che frammenta il percorso decisionale, costituendo un ritorno al mondo degli arcana imperii e a una logica non più politica ma solamente tecnica.

E quanto sia pericolosa la logica della scienza lasciata selvaggia e ingovernata, senza addentellati garantistici liberali o semplicemente democratici, ce lo ricordano le vivide pagine di storia riportate da Giorgio Agamben in “Homo sacer”, nel delineare lo scenario carnicino del processo ai medici nella seconda Norimberga.

O ancora, quella “tirannia dei valori” analizzata da Carl Schmitt e che costituisce il punto di attacco, non neutrale, della vischiosità di linguaggi muniti di un proprio mondo interiore e che nulla considerano fuori del loro limitato orizzonte.

È questa certamente una delle più grandi sfide per il Governo Draghi. La democratizzazione di una scienza tramutata in arena di tutti contro tutti.

In questo senso se da un lato si può salutare il ricorso al decreto-legge in luogo del Dpcm come un atto di ritorno, almeno parziale, nell’alveo dell’ordinamento, dall’altro è evidente la essenzialità di una responsabilizzazione, politica ma anche giuridica, delle decisioni assunte dagli organi tecnici e consulenziali.

Bruno Latour chiedeva la democratizzazione del discorso scientifico nella sua teorica del “Parlamento delle cose”: appare evidente come noi dobbiamo esigere trasparenza sui dati, sui percorsi decisionali, ad oggi ottenuta solo a mezzo delle aule di tribunale, come nel caso delle meritorie iniziative della Fondazione Einaudi per veder ostesi i verbali del CTS stesso.

E c’è poi un imperativo, davvero di ordine morale: il ritorno alla continenza espressiva, chiesto a gran voce da Draghi per i suoi ministri ma che deve essere esteso a consulenti e tecnici di ogni ordine e grado.

Questo cacofonico e stordente rumore di fondo, a base di contagi, disperazione e scenari apocalittici, non fa bene a nessuno, se non a un certo modo ambiguo di intendere la “scienza”, chiamata nel panico a consolidare soltanto sé stessa e la rendita di posizione del proprio potere.

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