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L’autodistruzione della nostra identità: un disegno politico perseguito lucidamente, non una svista da burocrati

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Ormai siam tornati allo slogan “contrordine compagni”, con il quale Giovanni Guareschi si faceva beffe dell’obbedienza cieca alle direttive dall’alto comune nei militanti del vecchio Partito Comunista Italiano. Solo che questa volta non si parla del Pci e dei riti della sinistra vecchio stile. Ad essere coinvolta è, niente meno, la Commissione europea, massimo organo di governo della Ue.

La vicenda è molto nota e non mi dilungherò in dettagli. Importante è invece rilevare la precipitosa marcia indietro della Commissione di fronte alle critiche feroci che hanno accolto la divulgazione delle “Linee guida sulla comunicazione inclusiva” emanate da Bruxelles.

Così ci stiamo davvero arrivando, con grande gioia di vasti settori della sinistra italiana, europea e occidentale in genere. L’obiettivo da raggiungere – e in fase avanzata di conseguimento – è la perdita della nostra identità. O ancor meglio, e usando termini forse un po’ troppo filosofici, lo smarrimento della nostra anima.

I burocrati dell’Unione si stanno finalmente avviando verso un Natale senza presepi e altri odiosi simboli dell’eredità cristiana. E, in aggiunta, aule da cui il crocifisso è severamente bandito. Col che le feste si riducono a fiere puramente commerciali da cui vengono espulsi con rigore inesorabile tutti i riferimenti al nostro passato, alla nostra storia. Difficile ormai capire “chi” e “cosa” siamo.

Il trionfo del politically correct avanza a passo di carica, tra rullare di tamburi e squilli di tromba. Senza comprendere che tale marcia ci porterà verso il nulla totale, un vuoto che altri – più astuti di noi – non faticheranno a riempire con simboli e attitudini estranei all’Occidente.

Siamo diventati deboli, schizzinosi, attentissimi ai valori altrui e sprezzanti verso quelli che hanno forgiato da due millenni a questa parte il nostro modo di vedere il mondo, le griglie interpretative che sottendono la nostra cultura.

Ma siamo proprio sicuri che le suddette “Linee guida” siano opera soltanto di sciapi burocrati, e debbano quindi essere svalutate? Mi permetto di nutrire qualche dubbio al riguardo. Una certa copertura politica devono pur averla, e non mi stupirei se Ursula von der Leyen e Charles Michel, pur detestandosi a vicenda, avessero dato un contributo importante alla loro stesura.

È davvero sconfortante vedere come la marcia di cui sopra trovi legittimazione proprio nelle sedi simbolo del potere. Il palazzone sede dell’Unione europea a Bruxelles in primis, senza però scordare che pressoché tutti i vertici dell’Occidente, ancor più che disorientati, sembrano intenti a un’opera di autodistruzione senza fine.

Ed è una tendenza perseguita con lucidità degna di miglior causa. Non autoinganno, dunque, bensì un disegno limpido e coerente basato su luoghi comuni (diventati tali negli ultimi tempi), su complessi di colpa e su un desiderio infinito di espiazione. Complessi di colpa – sia detto per onestà – che altri non nutrono affatto, anche se la loro storia indurrebbe a pensare che non sono certo migliori di noi. Anzi: il contrario.

Senza posa il tentativo di gettare ponti anche quando si capisce che non daranno i frutti sperati. Il dialogo implica, ovviamente, che l’altra parte sia disposta non solo ad ascoltare, ma anche a fare concessioni rinunciando a qualcosa. E invece le concessioni sono sempre unilaterali. Non può essere altrimenti quando l’interlocutore – moderato o estremista che sia – è comunque convinto di avere ragione per il fatto di accedere a una Verità assoluta e incontrovertibile.

Ci si chiede a quali criteri di razionalità obbedisca il “consiglio” di evitare di dare ai neonati nomi cristiani quali Maria e Giovanni, poiché essi non sarebbero affatto “inclusivi” dal momento che sono legati a una certa civiltà e a una specifica cultura (le nostre). Chiediamoci pure cosa accadrebbe se “consigliassimo” ai genitori musulmani di non attribuire nomi come Mohamed e Aisha ai loro bimbi. Facile prevedere le reazioni scandalizzate, magari accompagnate da qualche attentato.

Nel mentre aumenta il numero degli Stati che, dopo aver adottato la sharia quale unica legge, proibiscono la pratica di ogni culto che non sia il loro, e pure qualsiasi riferimento al cristianesimo (pena la prigione o anche peggio). Si è detto tante volte che il dialogo vero deve per forza di cose basarsi sulla reciprocità. In altri termini, io ti consento di costruire un luogo di culto nel mio Paese se tu mi permetti di fare altrettanto nel tuo. Parole al vento, giacché restrizioni e persecuzioni sono addirittura aumentate e la Commissione europea non pare farci caso.

Né sembra lecito attendersi che coloro che approdano in Europa, mantenendo però i propri costumi e le loro leggi, siano disposti a rimpiazzare i termini “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”. Come dar loro torto in questo caso? Si tratta di una enorme sciocchezza dalla quale – per ora – un voto del Parlamento italiano ci ha salvato. Ma non è finita, giacché è molto probabile che venga riproposta, così come verranno plausibilmente riproposte le “Linee guida” della Commissione Ue di cui si è scritto dianzi.

A me pare che l’ottimismo manifestato da una certa parte del mondo politico (ed ecclesiale) sia infondato. E che giorni ancor peggiori di quelli che abbiamo appena vissuto siano lì ad attenderci senza una sia pur minima capacità di reazione. Del resto, non si sta forse proponendo in Belgio di eliminare ogni riferimento ai sessi sulle carte d’identità poiché esso risulterebbe troppo “binario”? E nel Regno Unito qualcuno non ha forse proposto di estendere il diritto di voto ai bambini delle elementari dai 6 anni in su? Una provocazione, s’è detto, ma non mi stupirei che fosse messa in pratica nel prossimo futuro.

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