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L'”Homo Davigus” è in mezzo a noi: si salvi chi può

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In molti non lo ricorderanno, d’altronde sono passati oltre vent’anni, ma c’è stato un periodo nella nostra storia in cui i magistrati erano acclamati per le strade quasi quanto Roberto Baggio a Usa ’94, e parlavano alla nazione interrompendo le trasmissioni televisive per leggere i loro comunicati stampa. Se Di Pietro era indubbiamente la vedette di quello che è passato alla storia come il “Pool di Mani Pulite”, Piercamillo Davigo rimane il magistrato più legato a quei tempi. Tempi che, alas, non ci hanno mai lasciato.

È bastata la proposta di abolizione della prescrizione da parte del Movimento 5 Stelle per rivederlo in tv, a spiegare con passione e tenacia perché la prescrizione va riformata (giusto), e come va riformata (non come vuole lui). La sua tesi, non più comunicata in diretta unificata come quando era tra gli oppositori al Decreto Biondi, è che la prescrizione dovrebbe essere abolita perché è uno strumento nelle mani della difesa per allungare i processi e non arrivare alle condanne dei colpevoli. Il processo d’appello – secondo l’homo davigus – sarebbe un di più che il nostro sistema accusatorio regala agli imputati condannati in primo grado di giudizio, che, parole sue, “è il vero e unico giudizio che conta”. Detto che perfino Milena Gabanelli – non certo l’avvocato Ghedini – sul Corriere ha dimostrato che oltre il 60 per cento dei processi finisce in prescrizione per le lungaggini nella fase di indagini preliminari, stupisce come un uomo di legge possa non solo dire, ma anche pensare una cosa simile. La nostra Costituzione prevede tre gradi di giudizio, e nel 50 per cento dei casi le sentenze di primo grado vengono ribaltate in appello, a testimonianza di quanto serve il secondo grado di giudizio.

Ma non è finita qui. In passato Davigo – che qualcuno avrebbe voluto ministro della giustizia – ha dichiarato che “nella pubblica amministrazione non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Innocente fino a prova contraria? Macché, colpevole fino a che uno non dimostra la propria innocenza. Un’idea molto lontana dal costituzionalismo e dall’effettiva somministrazione della giustizia nelle democrazie liberali.

In tutte le sue esibizioni televisive Davigo – uno dei magistrati italiani più apprezzati, ascoltati e conosciuti anche in seno all’Anm – dà l’idea di considerare la difesa degli imputati un inutile orpello sulla via della Dea giustizia, un ostacolo insormontabile nel dovere del pm di fare emergere il vero. Fa niente se questo vero non coincida con la verità processuale: il pm ha sempre ragione. L’altra sera in televisione Bruno Vespa lo ha canzonato sostenendo che lui sul comodino tiene sempre pronte le manette per andare a caccia di nuovi colpevoli.

Davvero un peccato essere trattati così, ma frasi come “il borseggio è meno grave di una corruzione perché quanti soldi potrebbe avere una vecchietta nel portafogli” non sono del livello che ci si aspetta da un ex presidente dell’Anm. La legge già punisce i reati in modo diverso. Non serve fare la conta di quanti soldi ci sono nei portafogli degli scippati.

Il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Gherardo Colombo – altro alfiere del pool – si intitola “la tua giustizia non è uguale alla mia”. La tesi è che il giustizialismo davighiano sia lontano da quello radical sinistrorso di Colombo. Ma nella scontro tra gli opposti emerge in realtà una grande convergenza verso il giustizialismo, una magistratura che non deve solo applicare la legge ma fare opere di “igiene morale”, un’esaltazione delle pur sacrosante inchieste di Tangentopoli, in cui sono stati fatti tanti errori. Eccome se sono stati fatti.

Venticinque anni dopo la Grande Terreur e dopo il giacobinismo delle monetine e degli schiavettoni ai polsi, è tornato di moda il giustizialismo. L’homo davigus vive e lotta in mezzo a noi. Si salvi chi può.

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