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L’Italia a trazione leghista e pentastellata, euroscettica, che però sulla Brexit si allinea a Bruxelles

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Il coraggio dei cittadini che scelgono la libertà dalla lobby finanziaria, sconfiggono i poteri forti, esprimendosi con un voto storico. È il 24 giugno del 2016, dal Regno Unito arrivano i risultati del referendum su Brexit e alcuni personaggi di spicco della Lega, tra cui ovviamente il leader Matteo Salvini, si affidano ai social network o alle agenzie per esprimere la loro soddisfazione per la vittoria del fronte del Leave. Una presa di posizione chiara e scontata, dato il forte euroscetticismo che contraddistingue il movimento leghista: siamo tra l’altro ormai in clima di campagna
elettorale per il referendum costituzionale varato dal governo di Matteo Renzi e così, da referendum a referendum, si inizia a pronosticare la “Renxit”.

“Il cuore, la testa e l’orgoglio hanno battuto le bugie, le minacce e i ricatti. Grazie UK, ora finalmente cambierà l’Europa, ora tocca a noi”, le parole di Salvini. “La Gran Bretagna ha scelto di non piegarsi alla finanza, all’Europa delle banche e delle multinazionali”, quelle di Massimiliano Fedriga. “I burocrati di Bruxelles hanno perso, hanno vinto il popolo inglese, la Libertà, la Democrazia”, il pensiero del deputato Filippo Busin e la rassegna potrebbe proseguire a
lungo, almeno fino all’ottobre di quell’anno quando, intervistato dal Financial Times, Salvini cala l’asso: Brexit è “una bellissima boccata d’ossigeno” e “chiunque vota per noi deve sapere che un governo della Lega si libererà dell’euro e tornerà alla moneta nazionale”.

Due anni e mezzo più tardi, ci si arrovella tra le oltre cinquecento pagine dell’accordo raggiunto tra Londra e l’Unione europea per comprendere se davvero Brexit possa trasformarsi in una boccata d’aria fresca per il Regno Unito, mentre la stampa rilancia lo scenario più pessimista tra quelli formulati dal Tesoro britannico e dalla Bank of England, che metterebbe in conto un crollo quasi del 10 per cento del Pil in cinque anni, in caso di Brexit “disordinata”. La Lega è al governo e, a dispetto delle percentuali che assemblano la coalizione con il Movimento 5 stelle, detta l’agenda e i toni dell’esecutivo, specialmente sulla questione più spinosa al vaglio tanto di Roma quanto di Brussels: la legge di bilancio. Si discute a cena di virgole e decimali, lo spread sale e scende, la Borsa segue a ruota, un giorno si parla di riavvicinamento tra le parti, l’altro di rottura delle contrattazioni. C’è molto fumo e tirare sommariamente le fila del discorso è un pericoloso errore di valutazione: solo il risultato finale potrà dare un segnale delle intenzioni della maggioranza ed è ancora lontano dal materializzarsi.

In compenso, l’Italia a trazione leghista e pentastellata – e quindi profondamente euroscettica – si allinea all’Ue proprio sulla Brexit. È un tema scomparso dal dibattito nazionale, che certamente non porta voti, ma nessuno dei personaggi sopra menzionati ha preso più posizione, nemmeno in queste settimane febbrili che precedono il delicatissimo voto del Parlamento britannico sull’accordo ratificato da tutti gli stati membri e che oltremanica i critici più accesi definiscono pericoloso ed insidioso, un vassallaggio nei confronti dell’Unione. Ce ne sarebbe di carne al fuoco per gli euroscettici italiani, sfruttando per esempio l’appiglio delle rigide posizioni di Brussels che potrebbero far pensare al tentativo di punire severamente l’esito di un voto ostile. E invece è il silenzio.

Il silenzio che si percepisce anche dai banchi del M5S, che a lungo hanno filato con Nigel Farage, uno dei volti più noti e agguerriti nella campagna per abbandonare l’Ue. “Il vento del cambiamento è sempre più forte”, twitta il 24 giugno 2016 Danilo Toninelli di fronte alla vittoria della democrazia e alla sconfitta dell’Europa delle banche. “L’Europa deve cambiare altrimenti muore”, il tono più democristiano di Luigi Di Maio che per l’occasione aggiunge: “Il M5s ha sempre creduto che a dover decidere sulle questioni decisive debba essere il popolo, infatti abbiamo raccolto le firme per il referendum sull’euro per far decidere gli italiani sulla sovranità monetaria”. Il famoso referendum sul quale l’oggi sottosegretario per l’economia e le finanze, Laura Castelli, ha fatto intendere che non saprebbe come esprimersi – l’ha detto lei, per dovere di cronaca.

Contraddizioni, passi fatti di lato più che avanti o indietro, tentennamenti che sulla questione britannica non passarono inosservati a Gian Marco Centinaio, oggi ministro delle politiche agricole e del turismo nel Governo Conte: “A differenza dell’ambiguità di Grillo, che a seconda di dove girava il vento era pro o contro Brexit, noi siamo chiari da sempre”. Le giravolte grilline sulle questioni europee non sono una novità. Nell’estate del 2015 Di Maio e Alessandro Di Battista si palesano al Pireo di Atene per celebrare il successo della consultazione chiesta dal primo ministro greco Alexis Tsipras sul piano di intervento proposto da Commissione europea, Fmi e Bce, respinto dal 61 per cento dei votanti. “E’ un dilettante”, commenta a poche settimane di distanza proprio Di Battista che accusa Tsipras di non aver intrapreso l’unico piano B davvero possibile: uscire dalla moneta unica. Ospite di Bruno Vespa lo scorso gennaio Di Maio conclude il ragionamento affermando di non credere “che sia più il momento per l’Italia di uscire dall’euro: infatti io parlo del referendum come extrema ratio”.

Non è evidentemente nemmeno più il momento di discutere di Brexit: anzi, si firma senza batter ciglio ciò che passa l’Unione europea. Il resto è una questione di decimali. Peccato.

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