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Siamo ciò che postiamo: effetti indesiderati della sovraesposizione social

Quell’irrefrenabile desiderio di comunicare e mostrare al mondo le nostre cose, ad ogni costo. Ma sappiate che verrete giudicati senza pietà fino all’ultima virgola

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Se non è del tutto vero che noi siamo ciò che mangiamo (molto spesso non mangiamo ciò che vorremmo), dobbiamo dolorosamente ammettere che, nella civiltà dei social, quasi sempre ciò che postiamo volontariamente ci descrive alla perfezione.

Doverosa nota: qui, non parlo di chi scriva per mestiere o per consapevole scelta e lo faccia su giornali, periodici, blog. Questi, sanno perfettamente che verranno giudicati fino all’ultima virgola e che un sostantivo o un aggettivo “sbagliato” potranno essere fonte di guai di varia natura. Benché anche la Divina Commedia o I Promessi Sposi contengano errori e refusi, si sa: il lettore non perdona. Si accetta il rischio come contrappeso alla notorietà.

Parliamo, piuttosto, della comunicazione spiccia, quella sui social media, quella di tutti i giorni, fatta con il telefonino, benché talvolta proprio quella abbia diffusione molto superiore agli articoli di giornale. Questo il guaio.

Perso il controllo

È curioso che molti che ritengono di essere giudicati in modo ingeneroso non tengano nel dovuto conto la massa enorme dei materiali multimediali da loro stessi immessi nel mare magnum dell’informazione planetaria condivisa. Già su questo aspetto, parlando di diffusione mondiale ed istantanea di qualunque “post” parta dai nostri terminali telematici, si potrebbe fare una riflessione facile facile: ci si rende conto che, quando si preme il tasto “invio”, lo si consegna al mondo intero? Molto spesso no.

Se, per giunta e per aggravante, la diffusione di quella foto, di quello scritto, di quel messaggio, parta da un telefonino è del tutto evidente e prevedibile che qualcosa possa più facilmente sfuggire al controllo, per cui, per fare un esempio banale, capita spesso che foto scattate in fretta con lo smartphone contengano ai bordi dell’immagine particolari che non si sarebbero pubblicati se quella foto la si fosse esaminata con un minimo di attenzione prima di pubblicarla.

Accade altrettanto spesso che qualcuno che non sia propriamente un asso nell’italiano scritto e parlato accenda involontariamente un formidabile riflettore su certe lacune grammaticali o sintattiche, magari inutilmente aggiunte a contenuti visivi che già parlavano da soli e senza sciorinare errori da matita blu. Partire dall’assunto che una bella immagine o un bel video dovrebbero parlare da soli, sarebbe un buon punto di partenza, a mio avviso. Certe musichette aggiunte, poi, starebbero bene al Luna Park, ma o gusti sono quelli che sono; che farci?

Ciò che non finisce di stupire è quel desiderio di comunicare al mondo le cose nostre, ad ogni costo ed oltre ragione, che ci sta prendendo sempre più. Questa è l’epoca della interazione cibernetica istantanea e senza limiti spaziali. La figura retorica che mi viene in mente spesso, quando parliamo di contenuti social, è quella di un caotico suk orientale sempre più affollato delle più svariate merci buttate a terra alla meno peggio, dove tutti vendono qualcosa che non necessariamente è richiesto da sempre più distratti visitatori, diventati loro stessi venditori a casaccio e, di conseguenza, benevolenti e comprensivi coi colleghi.

Sempre più desiderosi di fare massa piuttosto che di selezionare la merce, abbiamo però la faccia tosta di prendercela con chi ci sminuisca o, peggio ancora, ci attacchi per qualcosa che non meritava di essere messo bene in vista nella disordinata vetrina che noi stessi abbiamo allestito.

Senza tirare in ballo teorie complesse come quella del bias cognitivo o della eccedente autostima personale, abbiamo del tutto perso il controllo di quanto delle nostre vite (in)generosamente offriamo al mondo. Mi si perdoni la banalità, ma v’è un preciso rapporto proporzionale tra numero di comunicazioni offerte e possibilità che qualcosa vada oltre, quando non in senso opposto, a quanto si desiderasse comunicare.

Finti anticonformisti

Più leggo i contenuti social dei miei conoscenti e di quelli seguo per pura buona educazione (lo ammetto: anch’io non mi sottraggo a certe regole social di pura convenienza), tanto più spesso rimango basito da quante sciocchezze, quanti errori da prima media, quanta inutile esibizione di cose o particolari di se stessi che non meritavano affatto di essere esibiti.

Piaccia o meno, è tutt’oggi imprescindibile la regola ferrea della prima impressione che si abbia da qualcuno per come egli si presenti. Certi abbigliamenti, certe buzzurrate gridano vendetta. Non mi si parli di anticonformismo. Sarò particolarmente sfortunato, ma tra i tantissimi che conosco, quelli che si definiscono “anticonformisti” appartengono al più desolante e trito clichè comportamentale che li rende talmente assimilabili e conformati tra loro da metterli tutti sul medesimo torpedone. A chi proprio non riuscisse a resistere alla tentazione di “andare controcorrente” suggerirei, semmai, di apparire meno e di godersi la propria pretesa diversità tra le sue mura domestiche.

Le case parlano di noi

A proposito di mura domestiche: le case nelle quali abitiamo parlano di noi più di quanto non si creda, anche quando dei nostri spazi vitali personalissimi se ne offra al mondo una parte limitata. Poi, ciascuno di noi ha il proprio metro di giudizio. Io, ad esempio, ho l’abitudine di far caso a quali siano e come vengano disposti i libri che moltissimi amano riprendere (persino nei collegamenti televisivi) alle proprie spalle.

Non raccontiamoci balle: non ci vuol molto a capire di cosa si nutra la mente di una persona osservando ciò che legge. Allo stesso modo, anche un bambino riconosce un libro letto e riletto molte volte da uno intonso ed immobile che raccolga polvere in libreria.

Selfie

Voglio, comunque, concludere questo sproloquio con le espressioni facciali dei fanatici del selfie. È sconsolante annotare come esse siano talmente limitate e tutte fatte con lo stampino (bocca a culo di gallina o lingua fuori per le donne e compatibili con le pose atletiche per gli uomini) da suscitare la più banale delle domande: “Ma se non sai nemmeno come stare quando ti fanno una foto e te la fai da solo, è proprio il caso di scattarla e pubblicarla?”

Altro punto dolente: vacanze e viaggi. Lo prescrive il medico di rovinare paesaggi mozzafiato o monumenti storici mettendovisi davanti? Lo so: vuol dire: “Io ci sono stato”, ma, in tal caso, è peggio ancora perché la risposta che meritereste, quella che nemmeno il vostro migliore e più sincero amico vi darà è implacabile e fiammeggiante: “E chi se ne frega dove sei stato!”.

Mi rifiuto, in chiusura di questa lamentazione del Profeta Geremia, di parlare delle foto dei piatti pronti ad essere degustati. Escludendo quelle fatte da chi il piatto l’abbia preparato e lo venda, la continua esibizione di aragoste messe di sghimbescio o di altre prelibatezze elegantemente poste sul piatto tra macchiette e ghirigori di salse multicolori ha oltrepassato il limite della decenza.

Effetti indesiderati

Liberissimo, ciascuno di noi, di pubblicare ciò che vuole. Ma poi non si lamenti se viene giudicato in modo diverso dalle aspettative. Tutti sappiamo come sia del tutto certo l’effetto collaterale di dare una pesante pennellata di poraccitudine a certe foto, proprio quando chi le ha pubblicate volesse dare una soffusa spruzzatina di savoir-vivre a quella circostanza. I vecchi dicevano “Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso”; come dare loro torto?

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