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Mistero Speranza, ministro del Lockdown non per caso: dietro di lui un mondo progressista che sogna la “transizione”

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Da assessore all’urbanistica del Comune di Potenza a ministro della salute. Questa la parabola misteriosa della carriera di Roberto Speranza. Sì, è vero che nel mezzo ha fatto il capogruppo del Pd alla Camera quando era segretario Bersani, ma chi se lo ricordava? Prima di lui, nel Conte I, ministro della salute era Giulia Grillo, Carneade anch’essa, ma almeno è un medico, nel Movimento 5 Stelle si è sempre occupata di tematiche sanitarie e appunto rappresentava, in quel dicastero strategico, l’allora partito più votato d’Italia. Che ad un partito inesistente nel Paese e minuscolo in Parlamento quale è LeU sia stato assegnato un posto di tale importanza è a dir poco strano. Incomprensibile, poi, che sia stato addirittura confermato nel Governo Draghi. Anche l’autorevole Der Spiegel inserisce Speranza, assieme a Conte, in un dossier nel quale denuncia le malefatte, le omissioni e gli insabbiamenti nell’emergenza coronavirus.

Senza scomodare il prestigioso periodico tedesco, ci eravamo accorti anche in Italia che il ministro era a dir poco inadeguato. Niente aggiornamento del piano pandemico, nessun potenziamento dei posti letto ospedalieri, protocollo sanitario anti-Covid che non contempla, in modo letale per tanti pazienti, le fondamentali cure domiciliari. È stato capace solo di chiudere tutto e continua tutt’ora imperterrito. Ecco, sul chiudere tutto e sulle conseguenze sociali ed economiche di tali misure, possiamo trovare qualche solida motivazione della sua nomina alla Salute.

Diciamolo subito: non credo alla narrazione per la quale Speranza sia semplicemente la persona sbagliata al posto sbagliato. Altrimenti uno come Draghi – Mattarella o non Mattarella – avrebbe recepito le fondate e logiche richieste di discontinuità che arrivavano forti da pezzi importanti dell’attuale maggioranza. E poi perché Mattarella avrebbe preteso la conferma del ministro? Perché entrambi di “sinistra”? Non scherziamo, se è successo davvero è per altre e ben più sostanziose ragioni. La principale delle quali è che Speranza sia stato messo lì esattamente per fare quello che ha fatto. Perché proprio lui? Abbiamo già visto che viene da una formazione politica numericamente irrilevante, non ha di suo un carisma o una forte personalità, non si è mai occupato di sanità in vita sua. Insomma, apparentemente non c’è una ragione logica per la quale sia stato nominato in quel ruolo e ne sia stato confermato dopo la rovinosa gestione dell’emergenza.

Di passata, ricordiamo solo che la John Hopkins University ha certificato che l’Italia è il Paese al mondo con il più alto numero di morti per Covid per 100.000 abitanti. Un disastro, al quale sarebbe dovuta conseguire una cacciata con ignominia, ed invece ha avuto il premio e sta ancora lì a darci lezioncine in tv.

Ma da che mondo politico viene Roberto Speranza? Sì, dal Pd, ma soprattutto dal sistema di potere di Massimo D’Alema (e Bersani). D’Alema, da tempo fuori dal Parlamento e dal Pd, esercita un’influenza notevole sui governi di cui fa parte la sinistra (cioè, in Italia quasi tutti). Questo potere lo gestisce da presidente della Fondazione ItalianiEuropei, un think tank diventato molto solido e importante all’interno della galassia dei “pensatoi” del mondo progressista europeo. Roberto Speranza è membro del comitato di indirizzo della Fondazione ItalianiEuropei. Addirittura, per diversi anni, D’Alema è stato presidente della Foundation for European Progressive Studies, cioè la fondazione che riunisce tutti i più importanti think tank progressisti europei.

In questo universo politico progressista il lockdown non è solo proposto come l’unico rimedio al virus ma anche come una soluzione moralmente “giusta”. Cioè, l’osservanza cieca delle misure restrittive è segno distintivo di civismo, di amore per gli altri, di superiorità morale (vecchio difetto della sinistra di tutto il mondo). Chi esprime dubbi o dissenso verso le misure liberticide è un incivile, un parvenu e, in fin dei conti, un bieco fascista. Da questo punto di vista, Speranza in Italia ha portato avanti questa impostazione con coerenza e determinazione. La fondazione più importante e più influente di questa galassia europea è la britannica Fabian Society, nella quale D’Alema è di casa. La Fabian prende il nome da Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore. Il fabianesimo, difatti, fin dalla sua fondazione nel 1884, crede nella graduale evoluzione della società, tramite riforme che portino gradualmente appunto al socialismo, a differenza del marxismo che predica un cambiamento rivoluzionario. Ma sempre al socialismo, al collettivismo essa mira. La Fabian è tendenzialmente contraria alla proprietà privata, in particolar modo quella dei piccoli proprietari e piccoli imprenditori.

Uno dei tanti fabiani illustri del passato è quel George Orwell, autore di “1984”, il romanzo su di un futuro distopico dell’umanità mai così vicino alla realtà come oggi. Tutti i massimi esponenti del partito laburista inglese vengono dalla Fabian Society. Quelli del passato e quelli del presente. Tony Blair, Gordon Brown, Jeremy Corbin, l’attuale leader dei laburisti Keir Starmer e la sua vice Angela Rayner, sono, o sono stati, tutti fabiani. Starmer fa parte del comitato esecutivo della Fabian e Sadiq Khan, sindaco laburista di Londra, ne è addirittura vicepresidente. A proposito di Gordon Brown, ultimo premier laburista, Roberto Speranza si vanta del fatto che suo cugino Ken ne è stato uno stretto collaboratore. Speranza è inglese da parte di madre. La Fabian Society è al tempo stesso fortemente elitaria e convintamente collettivista, lo stesso John Maynard Keynes era fabiano.

Tornando al lockdown e al coronavirus, è estremamente interessante leggere cosa scrive a proposito il giornale di riferimento, fondato della Fabian Society, cioè New Statesman. Negli articoli sulla pandemia si leggono sì dei richiami a qualche abuso dei governi sulla segregazione o alle conseguenze negative della stessa, però il messaggio di fondo che emerge è: ma siamo sicuri che prima si stava così bene? Che il ritorno alla normalità e al divertimento di massa sia un fatto auspicabile? Dopotutto, i cittadini hanno dato il meglio di sé durante la pandemia mentre prima stavamo affossando il pianeta con l’inquinamento e il cambiamento climatico… ora invece anche il lavoratore meno qualificato avrà diritto all’accesso alla tecnologia e potrà pretendere di recarsi in ufficio solo alcuni giorni a settimana lavorando da casa i giorni restanti. Sul versante economico, se si leggono gli speech di studiosi vicini alla Fabian, la ricetta post pandemia è sintetizzabile in più debito e più tasse.

E qui possiamo tornare in Italia, perché il buon Speranza sarà sì ben ammanicato nel mondo del laburismo anglosassone ma mica fa tutto da solo. Chi è il massimo sostenitore del debito (quello buono, si intende)? Mario Draghi. Lo ha fatto gonfiare da governatore della Bce con il Quantitative Easing per salvare l’euro dal giusto naufragio cui era destinato dal mercato e lo sta facendo, come un Conte qualunque, da presidente del Consiglio. Sta alimentando l’illusione che si possano allentare all’infinito i vincoli di bilancio, facendo finta di non accorgersi che presiede un Paese che è ben sopra il 160 per cento di rapporto debito/Pil, che ha già effettuato oltre 100 miliardi di scostamento e ora si prepara a contabilizzarne altri 20, oltre ai 27 miliardi arrivati dai fondi europei Sure. Il conto di tutto ciò verrà presto presentato agli italiani e Draghi lo sa benissimo. Non dice una parola sull’unica vera soluzione di questo problema: la crescita. Anzi, continua a promettere ulteriori chiusure delle imprese se non faremo i bravi. D’altra parte, glielo impone “l’evidenza scientifica”, che ci può fare lui? Insieme a Speranza è un convinto chiusurista e cultore di tutte le sfumature di rosso. Non ci dice che l’unico modo di salvare il Paese è tornare a vivere e a fare libera economia. Ha messo nel mirino la piccola e media impresa fin dal discorso per la fiducia al suo governo, promettendo che gli aiuti saranno selettivi, cioè solo per quelle imprese che, a suo giudizio, avranno un futuro. Accetto scommesse su quali saranno. Persegue la politica assistenzialista del reddito di cittadinanza, così da far dipendere sempre più i cittadini dallo Stato e non dal proprio lavoro. Vuole la transizione ecologica e tecnologica per “salvare il clima” (Greta docet) ed affossare gli imprenditori “che inquinano”. Dalle sue prime mosse pare gradire il controllo dello Stato sulle vite dei cittadini/sudditi. Sta minando alle fondamenta la proprietà privata con la proroga del blocco degli sfratti, esproprio proletario da gauche caviar, tutto proprio come un bravo fabiano. Sì perché Draghi è un liberal, non un liberale. Lui si definisce socialista liberale, che è un ossimoro ma che lo riconduce dritto alla tradizione del fabiano più importante d’Italia: Carlo Rosselli.

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