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Non basta dire no all’accordo italo-libico del 2017: per l’Europa la questione migratoria è una “crisi costituzionale”

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Il recente dibattito sul rinnovo del Memorandum of Understanding (MOU) firmato il 2 febbraio 2017 dall’allora premier Gentiloni e dal capo dell’Esecutivo di Tripoli, al-Serraj, sta animando il confronto politico sul tema dell’immigrazione, evidenziando una significativa differenza di orientamenti all’interno della maggioranza parlamentare che sostiene il governo Conte 2. Ne abbiamo parlato con il professore Ciro Sbailò, direttore del corso di laurea magistrale in “Investigazione, criminalità e sicurezza internazionale” e preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Internazionale di Roma, tra i massimi esperti italiani di costituzionalismo arabo e islamico.

EMILIO MINNITI: Professore, innanzitutto, cosa ne pensa da giurista del Memorandum of Understanding italo-libico?
CIRO SBAILO’: Il Memorandum of Understanding era sicuramente un accordo border-line rispetto al diritto costituzionale italiano. Sotto diversi aspetti, avrebbe dovuto passare per il Parlamento, avendo profili di trattato internazionale. L’accordo fu duramente contestato anche da molti giuristi libici, bocciato dalla sezione amministrativa della Corte d’Appello di Tripoli e fatto poi rivivere dalla Corte Suprema libica nell’agosto 2017. Tuttavia, esistono nel diritto le cosiddette fonti extra ordinem, quando si tratta di prendere misure necessarie, non previste dall’ordinamento. La crisi libica rientra per molti aspetti tra i casi che giustificano il ricorso a tali fonti.

EM: A proposito della reale natura della crisi libica, quali sono gli interessi in gioco?
CS: Dentro questa crisi si sviluppano trame afferenti a diverse partite geopolitiche. Il perdurante conflitto interno al paese riflette, infatti, lo scontro intrasunnita, tra la Turchia e il Qatar, da una parte, e il fronte dei Paesi arabi rappresentato da Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti, dall’altra. Questo scontro s’intreccia, inoltre, con le dinamiche conflittuali, di tipo politico e militare, innestate dall’insistenza russa nella regione, in parte favorita dalla politica francese.

EM: Come si inquadra il fenomeno migratorio in questo scenario?
CS: La questione migratoria è inscindibile dall’emergenza libica. È una questione geopolitica di dimensioni epocali. Eppure l’Europa continua a farne un problema esclusivamente umanitario, come se si trattasse di una catastrofe naturale, riguardante un numero definito di individui. Secondo i criteri stabiliti in ambito Ue, ad esempio, è eleggibile alla ricollocazione un numero di migranti che di norma non supera il 5 per cento del totale (in base ai parametri adottati può arrivare a 10, ma a volte scivola sotto l’1 per cento). Tutti gli altri sono migranti “economici”: il presidente Macron lo ha sottolineato in varie occasioni, ribadendo l’indisponibilità della Francia a farsene carico. È stupefacente notare come quasi tutte le polemiche e anche gli accordi ruotino intorno a quella risibile percentuale. Fanno eccezione i recenti accordi di Malta, che però, sul punto, non hanno carattere vincolante, per cui la ricollocazione della stragrande maggioranza dei migranti resta affidata alla buona volontà degli stati. Il criticatissimo MOU è stato l’unico tentativo di lettura politica sia della crisi libica sia del fenomeno migratorio.

EM: Alla luce di quanto detto, il Memorandum of Understanding può considerarsi ancora uno strumento efficace?
CS: Certamente il contesto attuale, rispetto a quando il MOA fu stipulato, è molto cambiato: ha ragione l’ex ministro Minniti, che conosce molto bene la situazione in Libia, quando sottolinea il venir meno del contesto collaborativo con la Guardia costiera italiana, nel quale si inseriva il ruolo dei libici. Resta il problema di una gestione politica di questa crisi, che per l’Europa riveste il carattere di “crisi costituzionale”. È inconcepibile che non si abbia una linea comune (si pensi alla succitata politica autoreferenziale della Francia) su quel che accade ai propri confini e, per molti versi, dentro i propri confini (la questione dei flussi migratori si pone, per l’appunto, oltre la tradizionale dicotomia “esterno/interno”). Se l’accordo italo-libico del 2017 non va più bene, allora vuol dire che bisogna farne un altro, aggiornato alla situazione attuale. Forse bisogna mantenere l’intesa con Tripoli, senza però rompere (errore gravissimo!) con Tobruk (il che vuol dire coltivare e rafforzare l’interlocuzione con il Cairo). Non basta certo dire “no” – come ad esempio fa l’ex presidente di un importante partito come il Pd – all’accordo del 2017.

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