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Nozze gay: la Corte Suprema Usa infiamma la corsa verso le elezioni di medio termine

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La Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata lunedì su uno dei casi più attesi dell’anno, esprimendosi a favore di un pasticcere del Colorado che, nel 2012, si era rifiutato, per motivi religiosi, di realizzare la torta nuziale per una coppia gay. Nell’opinione di maggioranza, redatta dal giudice Kennedy, la Corte ha ricordato che, secondo la Costituzione federale, le obiezioni religiose e filosofiche al matrimonio gay sono opinioni protette e, in alcuni casi, forme protette di espressione.

Apriti cielo. Gli ultrà conservatori hanno accolto la sentenza come un concreto dietrofront della Corte in materia di diritti delle coppie dello stesso sesso (cosa che non è). Gli attivisti del movimento LGBT, per contro, hanno accusato i giudici “supremi” di aver fatto un inaccettabile passo indietro nel cammino verso la piena tutela dei diritti civili (e non si tratta nemmeno di questo).

L’attenzione del mondo politico per questa sentenza è inevitabile, non solo per l’argomento specifico, che riguarda il delicato equilibrio tra libertà religiosa e diritti delle coppie dello stesso sesso, ma anche perché i precedenti della Corte Suprema, nel sistema Usa, hanno natura vincolante, in virtù della regola del c.d. stare decisis. Tuttavia, una lettura serena e immune da pregiudizi ideologici impone di riconoscere che, in questo caso, si tratta di un precedente dal “fiato corto”. Certo, dal punto di vista numerico la maggioranza che si è pronunciata a favore del pasticcere è piuttosto ampia (7-2), e ciò grazie anche al fatto che due dei giudici di orientamento democratico, Breyer e Kagan, hanno votato come i loro colleghi conservatori. Ma si tratta di un precedente strettamente legato alle peculiarità del caso concreto – ed in particolare alla “chiara ed inammissibile ostilità” dimostrata dalla Commissione dei Diritti Civili del Colorado, che aveva sanzionato il pasticcere senza riconoscere adeguata tutela alla sua libertà religiosa. La Corte ha evitato di tracciare un precedente di carattere generale in materia di bilanciamento tra libertà di espressione – religiosamente caratterizzata – e diritto al matrimonio gay, lasciando tale compito al Congresso (o, all’occorrenza, a un proprio futuro intervento). Pertanto, rimane intatta la sentenza cardine in materia, pronunciata nel caso Obergefell c. Hodges, con cui la Corte, nel 2015, ha affermato che la Costituzione federale riconosce alle coppie dello stesso sesso il diritto al matrimonio.

Le reazioni accese che hanno seguito la sentenza di lunedì sembrano però ignorare volutamente il valore circoscritto della sentenza, approfittando del suo tecnicismo. Come mai? Per un duplice motivo. In primo luogo, questa è l’America ai tempi di Trump: un enorme stadio, in cui le opposte tifoserie si schierano e si dividono in maniera pregiudiziale, seguendo riflessi quasi pavloviani. Diviene così molto difficile il compito di chi vuole distinguere, nel fuoco incrociato delle opposte propagande, il reale significato degli accadimenti.

In secondo luogo, al di là delle contrapposizioni ideologiche in materia di diritti gay, questa sentenza della Corte Suprema riacutizza un problema politico-istituzionale che sta diventando sempre più pressante. Da mesi si inseguono le indiscrezioni su un possibile ritiro proprio del giudice Kennedy, che ha redatto non solo questa sentenza “circoscritta”, ma anche quella “cardine” nel caso Obergefell. Kennedy, 81 anni, nominato da Reagan, è un conservatore centrista, e il suo voto è il puntello decisivo per la maggioranza conservatrice della Corte Suprema. Ma Kennedy, tra gli attuali membri della Corte, dal punto di vista anagrafico non è neppure il giudice più anziano. Difatti, ha da poco sorpassato le 85 primavere Ruth Bader Ginsburg, icona liberal e femminista, divenuta una celebrità sui social media durante la campagna presidenziale del 2016, quando, rompendo la tradizionale riservatezza dei giudici “supremi” sui temi politici contingenti, non ha esitato ad esprimere la propria avversione per Trump (salvo poi scusarsi).

La battaglia ideologica sui diritti dei gay si sovrappone quindi alla lotta per il controllo dell’orientamento della Corte Suprema, e non solo. I giudici della Corte Suprema, così come tutti i giudici federali, sono nominati dal presidente, ma le loro nomine devono essere confermate dal Senato. E si tratta di nomine a vita.

Trump, in campagna elettorale, ha promesso di nominare – alla Corte Suprema, qualora si fosse presentata l’occasione, ma anche ai livelli inferiori della giurisdizione federale – giuristi dall’impeccabile preparazione tecnica, e dall’altrettanto granitico orientamento conservatore. Promessa mantenuta con la scelta del poco più che cinquantenne Neil Gorsuch – perfettamente corrispondente a questo profilo – per riempire il posto vacante lasciato, per più di un anno, dalla morte del giudice Scalia.

Se Kennedy dovesse ritirarsi a breve, Trump avrebbe la possibilità di sostituirlo con un altro giudice conservatore e relativamente giovane. Si materializzerebbe così uno dei peggiori incubi per i Democratici: una maggioranza conservatrice alla Corte Suprema destinata a durare a lungo, forse decenni. E proprio per esorcizzare questo incubo, il giudice Ginsburg ha finora fatto di tutto, dal canto suo, per smentire le voci che pure la davano per prossima al ritiro, vista l’età. Ma non c’è solo la Corte Suprema. L’ostruzionismo esercitato dai Repubblicani durante la presidenza Obama ha lasciato in eredità a Trump molti posti vacanti ai vari livelli della giurisdizione federale. Sono quindi ora i Democratici ad utilizzare tutti gli stratagemmi possibili – anche a danno della funzionalità del sistema – per rallentare il processo di conferma delle nomine pendenti (secondo l’ultimo conteggio, sono circa 148). Non riuscendo a “toccare palla” dal punto di vista politico, tramortiti prima dalla vittoria imprevista di Trump ed ora dall’attivismo della sua amministrazione, e privi di una chiara leadership, ai Democratici non resta che affidarsi, a propria volta, all’ostruzionismo, e alla speranza che le elezioni di medio termine del prossimo 6 novembre modifichino l’attuale maggioranza repubblicana al Congresso, Senato compreso.

Il tema del matrimonio gay è quindi il classico casus belli, ma la guerra vera riguarda le nomine dei giudici federali – dalla Corte Suprema in giù – destinate ad incidere a lungo sull’equilibrio complessivo del sistema politico-istituzionale. La sentenza sul pasticcere del Colorado ha un significato circoscritto, ma è perfetta per essere sventolata come bandiera ideologica da entrambe le parti, quasi come uno specchietto per le allodole: serve a chiamare a raccolta le opposte tifoserie, e a motivarle in vista della prossima battaglia decisiva, fissata alle urne tra cinque mesi.

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